È legittimo ritenere che, in una società di capitali, in presenza di utili in nero i relativi ricavi siano stati distribuiti tra i soci?
Chiamata a rispondere al quesito, la Corte di Cassazione, con la recente Ordinanza N° 15895/2024, si allinea alla tesi dell’Agenzia delle Entrate, seppure con una serie di distinguo.
Nello specifico, il caso riguardava l’impugnazione di alcuni avvisi di accertamento notificati al quotista di una società, cui veniva presuntivamente attribuita la liquidazione di utili extra-contabili non dichiarati dalla compagine. Il ricorrente contestava dinanzi al Giudice tributario gli avvisi di accertamento, censurando la presunzione di distribuzione ai soci degli utili non contabilizzati, ascritti al singolo senza alcuna indagine specifica volta ad accertare la destinazione delle somme. I Giudici di merito assumevano statuizioni diametralmente opposte, e se in primo grado la tesi del ricorrente veniva accolta, in sede di appello il verdetto originario veniva ribaltato, confermandosi la legittimità dell’avviso di accertamento; questo perché, secondo la Corte distrettuale, in presenza di una ristretta base partecipativa, anche nelle società di capitali, e dunque non solo per le società di persone, deve intendersi legittima la presunzione volta a ritenere la percezione degli utili extracontabili, salvo diversa prova del contribuente, volta a dimostrare l’accantonamento, oppure il reinvestimento delle somme da parte della compagine. Onere della prova che, se non assolto, legittima l’attribuzione di un maggiore reddito al socio.
La sentenza di secondo grado è stata impugnata nella sede di legittimità dal socio, per sostenere anche dinanzi alla Corte di Cassazione l’inoperatività del criterio per le società di capitali.
Sussisterebbe l’onere di un accertamento bancario, o comunque di una mirata indagine sui soci (verificando l’eventuale acquisto di particolare incidenza economica) circa gli esiti della contabilità sociale in nero, nella impossibilità di avallare la prova del maggior reddito nei ristretti termini presuntivi praticati dall’Agenzia delle Entrate, peggio ancora operando una distribuzione ideale degli utili secondo le rispettive quote partecipate nella compagine.
Di contrario avviso, come anzidetto, i Giudici di Legittimità, volti a reiterare il principio secondo il quale, in materia di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di società di capitali a ristretta base partecipativa, la presunzione di attribuzione ai soci di eventuali utili extracontabili accertati è legittima e risponde appieno ai canoni probatori di cui all’art. 2729 cc (gravità, precisione e concordanza, come notorio passibili di coincidenza anche a fronti di un solo fatto storico), anche in assenza di rapporti di parentela, poiché la ristrettezza della base sociale comporta un elevato grado di compartecipazione dei soci, i quali avranno di conseguenza un elevato grado di conoscenza degli affari sociali e dell’esistenza di utili extrabilancio. Tale canone presuntivo, del pari, non è scalfito dalla sussistenza di perdite per la specifica annualità di imposta. Ai soci è sempre fornita la possibilità di provare che i maggiori ricavi non siano stati oggetto di distribuzione, bensì accantonati dalla società o reinvestiti (Corte di Cassazione, Quinta Sezione Civile, Ordinanza N° 12053 del 6 Giugno 2017)
Studio Legale Avvocato Francesco Noto – Cosenza Napoli