Spiare i messaggi whatsapp del proprio partner, anche se si conosce il pin, costituisce reato?
Cosa rischia chi spia il telefono?
La Corte di Cassazione è tornata ad affrontare un tema, quello di accedere furtivamente alle chat private, molto dibattuto, soprattutto negli ultimi anni, visto l’utilizzo massivo dei device -soprattutto smartphone- e dei sistemi di messaggistica ivi istallati, oramai costituenti uno strumento basilare per la vita di ciascuno di noi. E su questo i Giudici di Legittimità hanno voluto fornire una risposta pienamente positiva con la recente Ordinanza N° 3025 del 27 gennaio 2025, che si inserisce in un solco risalente, salvo approfondire un dettaglio destinato ad assume primario rilievo, ovvero la conoscenza del pin di accesso al telefono e all’app messaggistica.
Nello specifico, il ricorso presentato innanzi la Suprema Corte aveva ad oggetto la sentenza di Corte d’Appello, con la quale era stata confermata la pronuncia del giudice di prime cure, volta a disporre la condanna di un soggetto per i reati di accesso abusivo nel sistema informatico o telematico (l’art. 615ter cp, infatti, prevede che “Chiunque abusivamente si introduce in un sistema informatico o telematico protetto da misure di sicurezza ovvero vi si mantiene contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo, è punito con la reclusione fino a tre anni) di un terzo protetto da misure di sicurezza (ovvero il pin), compiuto mediante accesso tramite lo smartphone alle chat Whatsapp dell’altra persona, e di presa di cognizione di comunicazioni avvenute tramite Whatsapp tra questa e il suo datore di lavoro, successivamente depositate nel procedimento civile incardinato davanti il Tribunale (violazione di corrispondenza, prevista e punita dall’art. 616 cp).
Il motivo proposto dal ricorrente a fondamento del suo ricorso in Cassazione era incentrato sulla sostenuta erroneità della pronuncia della Corte d’Appello, poiché questa non aveva tenuto debito in conto che il telefono era stato lasciato aperto, con la schermata del messaggio, senza la protezione del pin e, pertanto, non poteva sussistere l’elemento oggettivo del reato contestato della abusiva introduzione e il suo perdurare. Vista la piena possibilità di leggere il contenuto del messaggio e, allo stesso tempo, la condivisa conoscenza del pin stesso, doveva così desumersi un sostanziale consenso, da parte del proprietario dello smartphone, all’accesso ed alla visione dei suoi contenuti, destinata ad assurgere in termini gradati a giusta causa ex art. 616 cp, ai fini della violazione della corrispondenza, sostanziatasi nell’utilizzo della mails in altro procedimento.
La Corte di Cassazione, rilevata preliminarmente la completa e piena attività probatoria svolta dalle corti di merito, ritiene disattendere la tesi difensiva articolando la decisione nei due punti essenziali. Con il primo, la stessa, ribadendo una posizione già espressa in una sentenza antecedente, ha affermato il principio secondo cui la semplice comunicazione all’autore del reato delle password di accesso allo smartphone o al sistema di messaggistica, anche se in un periodo antecedente la condotta assunta, non presuppone la volontà della persona offesa a consentire l’accesso. Questa, infatti, deve essere manifestata e non presunta (infatti, nulla toglie che la password sia stata fornita per altri motivi diversi dalla consultazione e sottrazione dei messaggi). Stesso ragionamento è da estendersi in ipotesi della schermata lasciata accesa dalla persona offesa. Trattasi di una condotta dalla quale non può desumersi alcuna volontà.
Con il secondo punto, infine, la corte si sofferma sulla condotta di esibizione delle comunicazioni telefoniche, visto il loro utilizzo da parte dell’autore del reato in un procedimento civile. Qui la Cassazione conferma la posizione della Corte territoriale, vista la totale illogicità e illegittimità della condotta assunta, tenuto conto della possibilità da parte dell’autore di poter richiedere al giudice un provvedimento, anche in via d’urgenza, per l’esibizione della corrispondenza, che rendeva insussistente la giusta causa mossa dal ricorrente.
Sulla base di ciò, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso, confermando la sentenza di merito.
Dal punto di vista esegetico, ritiene l’Organo di Legittimità integrare il reato di violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza (art. 616 cod. pen.) e non l’ipotesi prevista dall’art. 617, comma primo, cod. pen., la condotta di colui che “spia”, oppure rivela, il contenuto della corrispondenza telematica intercorsa tra la ex convivente e un terzo soggetto, conservata nell’archivio di posta elettronica della prima, ed a tale fattispecie deve ricondursi l’ipotesi di accesso alle chat di whatsapp della persona offesa preservate da un codice PIN.
Il suddetto reato concorre con quello previsto e punito dall’art. 615 ter cp -accesso abusivo ad un sistema informatico- nel caso di accesso abusivo ad una casella di posta elettronica protetta da “password”, cui fa poi seguito l’acquisizione del contenuto della corrispondenza mail custodita nell’archivio informatico.
In sintesi, occorre prestare molta attenzione all’utilizzo dello smartphone di un’altra persona, anche se si tratta di un proprio partner. Il semplice venire a conoscenza della password, anche direttamente dal proprietario, non legittima di certo alcuna condotta volta a ottenere informazioni o elementi strettamente attinenti alla vita privata del soggetto, salvo l’espresso consenso a tal fine (Cassazione Penale, Sezione Quinta Penale, Ordinanza N° 3025 del 27 gennaio 2025).

Studio Legale Avvocato Francesco Noto – Cosenza Napoli