SCREENSHOT PROVA REATO

Può il riscontro del reato fondarsi sugli screenshot estrapolati dal cellulare dell’imputato pure con il suo consenso?

L’interrogativo non si accompagna ad una risposta scontata, se si considera il principio informatore reso assai di recente dalla Corte di Cassazione.

Il caso vedeva un soggetto imputato del reato di spaccio di sostanze stupefacenti (articolo 73, comma quinto, DPR N° 309/1990), confluita in una sentenza di condanna in primo grado, ridotta in appello ad un anno e sei mesi di reclusione, oltre Euro 1800,00 di multa.

Tra gli elementi di prova a corredo della penale responsabilità, la pubblica accusa ha altresì prodotto una serie di screenshot, estrapolate dalla Polizia Giudiziaria in occasione di un controllo su espresso consenso della persona, che ha così indotto i militari ad un immediato accesso al device e recupero dei files, preceduti dal sequestro della sostanza stupefacente (cocaina).

La sentenza di appello è stata impugnata dinanzi alla Corte di Cassazione, lamentando il prevenuto la inutilizzabilità delle chat rinvenute nel telefono, in uno alla illegittimità della perquisizione (che ha consentito il rinvenimento della sostanza stupefacente) e comunque la mancata valutazione di tenuità del fatto ex art. 131 bis cp, a fronte di un quantitativo di sole trenta dosi, elemento ultimo da valutare alla stregua della insussistente abitualità delle condotte.

La Corte di Cassazione, pur giungendo ad una complessiva valutazione di infondatezza del ricorso, ritiene tuttavia le doglianze inerenti gli screenshots fondate, seppure nel caso specifico inidonee a sovvertire il pronunciamento di merito, per effetto del complessivo quadro probatorio.

Richiamati dapprima i principi informatori resi dalla Corte Costituzionale con la notoria “sentenza Renzi” (N° 170/2023), l’Organo di Legittimità ritiene che le conversazioni archiviate in un telefono cellulare -quale che sia la modalità di riproduzione, ivi compreso lo screenshot- sono da intendere come corrispondenza, e pertanto possono essere acquisite solo a seguito di provvedimento reso dall’autorità giudiziaria, applicandosi la disciplina dell’art. 254 cpc, e prima ancora l’art. 5 della Costituzione.

Non vale dunque avversare tale canone adducendo la sussistenza di un consenso da parte del titolare del device, perché inidoneo a supplire all’obbligo autorizzativo dell’autorità giudiziaria.

A tal fine, essendo l’accesso ai dati del telefono avvenuto dopo il rinvenimento della sostanza stupefacente, e dunque nei confronti di soggetto gravato da indizi tali da fargli assumere la veste di indagato, l’attività dei militari è risultata fallace sotto un duplice aspetto:

  1. innanzitutto il consenso reso dal titolare del device doveva comunque essere preceduto da una formale enunciazione di tutte le pertinenti facoltà difensive, ivi compresa la facoltà di rifiutare tale collaborazione ed altresì il diritto ad essere assistiti da un difensore, ai sensi dell’art. 356 cpp, in combinato disposto all’art. 114 disp att. cpc.
  2. In uno alle garanzie partecipative sopra enucleate, la P.G. doveva solo limitarsi ad acquisire lo smartphone, senza accedere al contenuto, se non dopo un esplicito provvedimento dell’autorità giudiziaria.

Da quanto sopra discende come anzidetto la inutilizzabilità delle chat acquisite dalla P.G., risultate tuttavia inidonee a ribaltare il verdetto di colpevolezza, rilevando la Corte di Cassazione essere impiantata la declaratoria di colpevolezza di plurimi elementi probatori, non avversati nel suo insieme dal ricorrente.

La sentenza respinge altresì gli ulteriori motivi di ricorso, dettando un duplice principio informatore, favorevole alle ragioni della pubblica accusa:

– per quanto concerne la perquisizione che ha portato al rinvenimento della sostanza stupefacente, non è possibile predicarne la inutilizzabilità alla stregua di un concorrente canone interpretativo: a) non sussiste alcun obbligo di avvisare la persona circa la facoltà di essere assistito da un difensore ex art. 144 disp att cpp; b) i controlli finalizzati al rinvenimento di stupefacente, come pure delle armi, sono da intendere come ispezioni speciali, ed in detti termini da considerare rispetto alla disciplina generale dei mezzi di ricerca della prova, ben potendo essere in un secondo momento convalidati dal pubblico Ministero;

– una volta ritenuta valida la perquisizione, grava sull’imputato la c.d. “prova di resistenza”, circa la estraneità alla attività di spaccio, che registra di contro una sommatoria di elementi ponderali di senso opposto (rinvenimento banconote di piccolo taglio accartocciate; assenza attività lavorativa incompatibile con il tenore di vita dell’imputato).

Da qui l’accoglimento del motivo e la concorrente conferma della sentenza (Cassazione Penale, Sezione Sesta, sentenza 5 Gennaio 2025 N° 1269).

Studio Legale Avvocato Francesco Noto – Cosenza Napoli

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