Può il figlio adulto, anche se non convivente, ottenere il risarcimento del danno per perdita del rapporto parentale a seguito della morte di uno dei genitori?
La risposta al quesito appena posto è pienamente positiva, ma occorre dare una adeguata spiegazione per poter dipanare ogni dubbio, soprattutto in merito ad un tema sempre di estrema attualità nel sistema giuridico ed oggetto di forti evoluzioni.
La questione nasce a seguito della morte di un soggetto, avvenuta per un infarto dopo diversi interventi chirurgici eseguiti presso la stessa azienda ospedaliera a causa di una grave patologia al colon.
La moglie e i figli proponevano ricorso per il riconoscimento del risarcimento danni dinanzi il Tribunale di Torino, sostenendo la morte del congiunto essere stata cagionata da errori commessi durante la diagnosi e negligenze commessi dai sanitari.
Il Tribunale di prime cure, una volta disposta la CTU, rigettava il ricorso concludendo il mancato ottemperamento all’onere della prova in capo ai familiari, poiché, a detta della stessa, non erano riusciti a provare la sussistenza del nesso di causalità tra la condotta dei sanitari e la morte del paziente. I congiunti decidono così di proporre appello avverso la sentenza del Tribunale di Torino.
La Corte d’appello arriva ad accogliere il ricorso proposto ritenendo provato il nesso di causalità tra i diversi errori compiuti dai sanitari e la morte del paziente ma, allo stesso tempo, il risarcimento del danno da perdita del rapporto parentela veniva riconosciuto solo alla moglie, nel mentre venivano esclusi i figli poiché, a detta della Corte d’appello, anche se questi avevano dimostrato essere congiunti conviventi, non avevano tuttavia provato la conseguenza dannosa subita sotto il profilo dinamico-relazionale. I figli pretermessi dall’indennizzo, venuti a conoscenza della decisione, decidono promuovere ricorso dinanzi la Corte di Cassazione, censurando la sentenza di appello nella parte in cui ha ritenuto il pregiudizio non patrimoniale non sussistente “in re ipsa”, bensì subordinato alla prova dei fatti “precisi e specifici del caso concreto”, e non di carattere generico e/o astratto posti a sostegno della domanda. Metodica di lettura, da parte del secondo giudice, volta a precludere ai figli il ricorso al criterio presuntivo, a tenore del quale cui la prematura perdita del congiunto induce ad un mutamento negativo delle condizioni quotidiane di vita ed al correlato dolore dell’animo, visto che gli stessi ricorrenti avevano “al proposito allegato, con formulazione assolutamente generica, “le particolari condizioni di famiglia “lo stretto rapporto di dipendenza economica”, il “rapporto di convivenza” e “l’intensità del legame affettivo”. Secondo i ricorrenti, pertanto, ribadita la piena operatività del criterio presuntivo, il giudice territoriale avrebbe omesso considerare, ai fini della decisione, fatti decisivi del giudizio.
La Corte di Cassazione, analizzata la questione, ritiene fondato il ricorso proposto dai figli del defunto, e censura l’esegesi della corte territoriale, nella misura in cui ha inteso rigettare la richiesta di risarcimento, sul presupposto che i figli fossero in un’età pienamente adulta, tale da escludere in via presuntiva la perdurante dipendenza economica e la convivenza dei genitori. In detti termini, il secondo giudice affermava la genericità delle allegazioni concernenti la natura e l’intensità della relazione con il padre, a differenza della moglie.
Un approccio totalmente opposto, come anzidetto, viene palesato dalla Suprema Corte, ferma nel rammentare come, in tema di risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale, sussiste “una presunzione iuris tantum di esistenza del pregiudizio configurabile per i membri della famiglia nucleare “successiva” (coniuge e figli) che si estende anche ai membri della famiglia “originaria” (genitori e fratelli), senza che assuma ex se rilievo il fatto che la vittima ed il superstite non convivessero o che fossero distanti; tale presunzione impone al terzo danneggiante l’onere di dimostrare che vittima e superstite fossero tra loro indifferenti o in odio, con conseguente insussistenza in concreto dell’aspetto interiore del danno risarcibile (c.d. sofferenza morale) derivante dalla perdita, ma non riguarda, invece, l’aspetto esteriore (c.d. danno dinamico-relazionale), sulla cui liquidazione incide la dimostrazione, da parte del danneggiato, dell’effettività, della consistenza e dell’intensità della relazione affettiva (desunta dalla coabitazione o da altre allegazioni fornite di prova)”.
In altri termini, la perdurante dipendenza economica e/o la convivenza, non assurgono ad elementi essenziali ai fini del riconoscimento del chiesto risarcimento, vista la presunzione sussistente, tale da comportare una inversione dell’onere della prova, ed ascrivere in capo al danneggiante l’allegazione di elementi deputati a far desumere l’assenza in concreto della sofferenza morale e d’animo (Corte di Cassazione, Terza Sezione Civile, Ordinanza 27 Ottobre 2024, N° 27142).
Studio Legale Avvocato Francesco Noto – Cosenza Napoli