“L’ordinanza di custodia cautelare personale emessa nei confronti di un imputato o indagato c.d. “alloglotta” (ovvero che parla solo un’altra lingua), ove sia già emerso che questi non conosca l’italiano, è affetta, in caso di mancata traduzione nella lingua del destinatario, da nullità ai sensi del combinato disposto degli artt. 143 e 292 cod. proc. pen. Ove, invece, non sia già emerso che l’indagato o imputato alloglotta non conosca la lingua italiana, l’ordinanza di custodia cautelare non tradotta emessa nei suoi confronti è valida fino al momento in cui risulti la mancata conoscenza di detta lingua, che comporta l’obbligo di traduzione del provvedimento in un congruo termine; la mancata traduzione determina la nullità dell’intera sequenza di atti processuali compiuti sino a quel momento, in essa compresa l’ordinanza di custodia cautelare”.
È quanto statuito dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite nella recente sentenza n. 15069/2024, chiamata a fornire una soluzione se la mancata traduzione dell’ordinanza di misura cautelare in una lingua nota all’indagato (c.d. alloglotta) entro un congruo termine sia in grado di determinare la nullità del provvedimento o il mero differimento del termine per proporre impugnazione. Una questione particolare che vede opposti due indirizzi: il primo sostiene che l’omessa o tardiva traduzione non comporta la nullità del provvedimento, poiché non riguarda la struttura del provvedimento, bensì la sua efficacia; il secondo, invece, ritiene che l’omessa o la tardiva traduzione corrisponde ad un vizio dell’atto, ma gli effetti processuali prodotti sono diversi a seconda che la conoscenza dell’incapacità dell’indagato di comprendere la lingua italiana sussista prima o dopo l’assunzione dell’atto. Infatti, qualora sussista prima dell’atto si avrà nullità del provvedimento, se dopo l’autorità giudiziaria è tenuta a tradurre il provvedimento entro un termine congruo e il mancato rispetto di questo comporta l’invalidità sopravvenuta dello stesso.
Le Sezioni Unite, con l’odierna sentenza, decidono di aderire al secondo orientamento, poiché il provvedimento che dispone una misura cautelare personale incide sulla libertà personale del destinatario, quale bene inviolabile e garantito dal diritto di difesa, che nel caso dell’alloglotta si traduce nel diritto alla traduzione e, pertanto, non può essere disatteso. Tuttavia, come sottolineato dalle Sezioni Unite, si possono configurare due situazioni diverse a seconda che l’incapacità dell’indagato di comprendere l’italiano sia nota dal giudice cautelare prima o dopo l’adozione del provvedimento. Nella prima ipotesi, qualora il giudice cautelare sia già a conoscenza di tale incapacità dell’alloglotta, sussiste un obbligo di traduzione del provvedimento il cui mancato rispetto comporta una nullità a regime intermedio, ovvero che non può essere dedotta per la prima volta in sede di legittimità.
Nella seconda ipotesi, invece, quando la mancata conoscenza della lingua italiana venga rilevata in un momento successivo all’adozione del provvedimento, il quale rimane valido fino al momento in cui tale incapacità non venga rilevata, si verifica una limitazione del diritto di difesa che comporta l’obbligo di provvedere alla traduzione entro un termine congruo. Il mancato rispetto comporta la nullità della sequenza procedimentale posta in essere sino a quel momento e dell’ordinanza stessa e tenendo sempre conto che la valutazione del “termine congruo” deve essere rimessa al giudice che dovrà tener conto degli elementi del caso concreto (Corte di Cassazione, Sezione Uniti Penali, sentenza 11 Aprile 2024 N° 15069).
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