L’accertamento di una condizione stressogena sui luoghi di lavoro, anche laddove non idonea a configurare gli estremi del mobbing, impone al giudice valutare se la insalubrità del luogo di lavoro comunque determini un danno per il lavoratore, che in detta evenienza deve essere risarcito.
La Corte di Legittimità ribalta integralmente le conclusioni del giudice di appello (ritenendo fondati tutti e tre i motivi dell’impugnativa ex art. 360 cpc), e riforma la sentenza di merito che aveva respinto appieno la domanda di risarcimento formulata dal lavoratore, sul presupposto di un danno alla salute derivante da un ambiente di lavoro particolarmente stressante.
La Corte di Legittimità opera dapprima una censura di carattere probatorio, tesa a riformare il capo della sentenza che ha ritenuto indimostrata, da parte del lavoratore, la dequalificazione professionale, pure denunciata da quest’ultimo. Nel pubblico impiego contrattualizzato, una volta acclusi al ricorso di primo gradi gli ordini di servizio ed il CCNL di riferimento -nel cui ambito sono contenute le declaratorie contrattuali corrispondenti ai vari livelli di inquadramento-, l’onere di allegazione documentale del lavoratore deve intendersi assolto, non potendosi gravare il ricorrente, come ritenuto dal giudice di merito, di un onere suppletivo di raffronto tra il contratto e gli ordini di servizio. A prescindere da un fattivo impulso della parte, rammenta la Corte di Cassazione rientrare tra i doveri del Giudice quello di porre a raffronto tali dati con la contrattazione applicabile, per verificare la fondatezza o meno della domanda, e se pertanto l’attività espletata sia stata o meno coerente con l’inquadramento formale.
Alle censure di carattere probatorio la Corte di Legittimità cumula l’erronea lettura circa il mobbing lamentato dal ricorrente, configurabile si rammenta ove concorra un elemento oggettivo (sostanziatosi nella pluralità continuata di comportamenti dannosi interni al rapporto di lavoro) ed altro volitivo, costituito dall’intendimento persecutorio nei confronti della vittima.
Operata siffatta premessa, gli Ermellini cassano anche sullo specifico capo la sentenza di merito, nella misura in cui ha ritenuto che al mancato riscontro del mobbing debba seguire il rigetto della domanda di risarcimento, senza considerare come, l’obbligo di preservare il diritto alla salute e alla personalità morale del lavoratore, sancito dall’art. 2087 cc, sia molto più esteso sul piano concettuale e giuridico.
La Corte, in più occasioni, ha affermato come, la riscontrata assenza degli estremi del mobbing, non preclude la necessità di valutare e accertare l’eventuale responsabilità del datore di lavoro per avere -anche solo colposamente- omesso di impedire che un ambiente di lavoro stressogeno provocasse un danno alla salute dei lavoratori.
Alla stregua della suddetta differenza concettuale, deve comunque intendersi illegittima la condotta del datore di lavoro, il quale consenta, pure in termini omissivi, il mantenersi di un ambiente stressogeno ed insalubre, generatore di danno alla salute dei lavoratori, perché lesiva della salute e contraria ai corollari fissati dall’art. 2087 cc, e prima ancora dall’art. 32 Costituzione. Questo perché l’art. 2087 c.c., seppure non assuma una connotazione oggettiva, onera il datore di lavoro, convenuto nella sede giudiziale, dimostrare di avere adottato tutte le misure che, secondo la peculiarità del contesto lavorativo, siano necessarie al fine di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei dipendenti (Cassazione Civile, Sezione Lavoro, Ordinanza 16 Febbraio 2024, N° 4279).
Studio Legale Avvocato Francesco Noto – Cosenza Napoli