Ennesima tappa della querelle tra Istituti di Credito e fidejubenti; la Corte di Cassazione, nell’ultima delle sentenze adottate, ridimensiona i margini di tutela che sembravano emergere nella recente statuizione di legittimità N° 13846 del 22 Maggio 2019. Ad una prima sentenza dello scorso maggio, tesa ad evidenziare la connotazione privilegiata, da un punto di vista probatorio, dell’istruttoria espletata dalla Banca d’Italia -e poi confluita nel noto provvedimento N° 55/2005-, ha fatto seguito un ultimo arresto, teso di contro a circoscrivere gli effetti di una possibile condotta distorsiva della concorrenza, generatrice di una mera pretesa risarcitoria. Il tutto rammentando inerire la sentenza N° 29810/2017 -invocata dal ceto dei consumatori- alle sole fideiussioni sottoscritte in epoca anteriore al 2005, e dunque non invocabile per i rapporti accesi in data posteriore (CASSAZIONE CIVILE, SENTENZA N° 24044 del 26 Settembre 2019)
Cassazione Civile, sez. I, sent. n. 24044 del 26 settembre 2019:
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.1. Con il primo motivo si denuncia la violazione e/o falsa applicazione e/o falsa interpretazione dell’art. 115 c.p.c.
I ricorrenti si dolgono che la Corte di appello nell’esaminare l’eccezione di nullità della fideiussione si sia focalizzata sul parere dell’Autorità Garante, che aveva riconosciuto la violazione della L. n. 287 del 1990, art. 2 esclusivamente per le clausole nn. 2, 6 ed 8 delle NBU, ponendo a fondamento della decisione “una prova documentale palesemente diversa da quella valorizzata dagli attuali ricorrenti” laddove essi avevano ricondotto l’eccezione di nullità all’ordinanza di questa Corte n. 29810/2017, che – a loro parere aveva qualificato le Norme Bancarie Uniformi ABI in materia di fideiussione in toto come “intese vietate” perché contrarie alla L. n. 287 del 1990, art. 2 (fol. 6/7 del ricorso).
1.2. Il motivo è inammissibile.
1.3. Invero, a prescindere dall’interpretazione propugnata circa il decisum contenuto nell’ordinanza n. 29810/2017, va osservato che il provvedimento giudiziario in questione è stato reso tra parti del tutto diverse da quelle che compaiono nel presente giudizio ed in relazione a distinte ed autonome vicende giudiziarie – di talché nemmeno sarebbero stati invocabili gli effetti ex art. 2909 c.c. – ed integra un precedente giurisprudenziale a valenza nomofilattica che, pertanto, non poteva assumere alcuna efficacia probatoria nel giudizio di merito.
Va, peraltro osservato, che – contrariamente a quanto sembrano suggerire i ricorrenti – la Corte di appello ha preso in esame la pronuncia in questione nel corso della articolata motivazione.
2.1. Con il secondo motivo si denuncia la violazione e/o falsa applicazione e/o falsa interpretazione della L. n. 287 del 1990, art. 2 e dell’art. 1419 c.c., nonché del principio di diritto enunciato con l’ordinanza della S.C. n. 29810/2017.
I ricorrenti si dolgono che la Corte di appello, interpretando ed applicando in maniera riduttiva il precedente richiamato, abbia dichiarato la nullità di singole clausole e non dell’intero contratto di fideiussione, da ritenersi invece nullo perché concluso in applicazione di intese illecite concluse “a monte”, tali dovendosi ritenere le NBU dell’ABI in materia di contratti di fideiussione contenenti clausole contrarie a norme imperative.
A parere dei ricorrenti la Corte di appello ha errato nel valorizzare il Provvedimento n. 55 del 2/5/2005 della Banca d’Italia, che limitava la lesività anticoncorrenziale esclusivamente alle clausole 2, 6 ed 8 della NBU, nel caso in cui non fosse emerso che in mancanza di quelle clausole il contratto non sarebbe stato concluso (art. 1419 c.c., comma 1); secondo i ricorrenti dall’ordinanza n. 29810/2017 si evince, invece, che la nullità delle NBU, qualificate come intese illecite e vietate dalla L. n. 287 del 1990, art. 2 travolge l’intero contratto fideiussorio.
Infine osservano che la prova circa la rilevanza delle clausole in merito alla conclusione del contratto risulterebbe impossibile, atteso che dette clausole venivano riprodotte dalla banca nel singolo contratto e la concessione del finanziamento era condizionata alla firma del contratto fideiussorio.
2.2. Il motivo è infondato.
2.3. Come già affermato da questa Corte “La Legge “antitrust” 10 ottobre 1990, n. 287 detta norme a tutela della libertà di concorrenza aventi come destinatari non soltanto gli imprenditori, ma anche gli altri soggetti del mercato, ovvero chiunque abbia interesse, processualmente rilevante, alla conservazione del suo carattere competitivo al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione di tale carattere per effetto di un’intesa vietata, tenuto conto, da un lato, che, di fronte ad un’intesa restrittiva della libertà di concorrenza, il consumatore, acquirente finale del prodotto offerto dal mercato, vede eluso il proprio diritto ad una scelta effettiva tra prodotti in concorrenza, e, dall’altro, che il cosiddetto contratto “a valle” costituisce lo sbocco dell’intesa vietata, essenziale a realizzarne e ad attuarne gli effetti. Pertanto, siccome la violazione di interessi riconosciuti rilevanti dall’ordinamento giuridico integra, almeno potenzialmente, il danno ingiusto “ex” art. 2043 c.c., il consumatore finale, che subisce danno da una contrattazione che non ammette alternative per l’effetto di una collusione “a monte”, ha a propria disposizione, ancorché non sia partecipe di un rapporto di concorrenza con gli imprenditori autori della collusione, l’azione di accertamento della nullità dell’intesa e di risarcimento del danno di cui alla L. n. 287 del 1990, art. 33 azione la cui cognizione è rimessa da quest’ultima norma alla competenza esclusiva, in unico grado di merito, della corte d’appello.” (Cass. Sez. U. 2207 del 20/2/2005), così sottolineando la differenza che ricorre tra gli accordi a monte, e cioè le intese, – oggetto di valutazione in merito alla illiceità per violazione della normativa antitrust e sanzionate dalla nullità – ed i contratti stipulati a valle, in relazione ai quali può essere esercitata l’azione risarcitoria.
In proposito, quanto agli effetti della nullità di un’intesa, questa Corte ha già avuto modo di chiarire che “Dalla declaratoria di nullità di una intesa tra imprese per lesione della libera concorrenza, emessa dalla Autorità Antitrust ai sensi della L. n. 287 del 1990, art. 2 non discende automaticamente la nullità di tutti i contratti posti in essere dalle imprese aderenti all’intesa, i quali mantengono la loro validità e possono dar luogo solo ad azione di risarcimento danni nei confronti delle imprese da parte dei clienti.” (Cass. n. 9384 del 11/06/2003; in tema Cass. n. 3640 del 13/02/2009; Cass. n. 13486 del 20/06/2011).
Questi principi trovano conferma anche nella recente ordinanza, richiamata dai ricorrenti, la secondo la quale, “In tema di accertamento del danno da condotte anticoncorrenziali ai sensi della L. n. 287 del 1990, art. 2 spetta il risarcimento per tutti i contratti che costituiscano applicazione di intese illecite, anche se conclusi in epoca anteriore all’accertamento della loro illiceità da parte dell’autorità indipendente preposta alla regolazione di quel mercato.” (Cass. n. 29810 del 12/12/2017).
Va tuttavia rimarcato che tale ultima pronuncia non risulta del tutto pertinente, atteso che affronta il peculiare tema della ricaduta degli effetti del provvedimento della Banca di Italia del 2 maggio 2005 sui contratti stipulati prima del maggio 2005, mentre il contratto in esame venne stipulato nel 2013. Inoltre – contrariamente a quanto propugnano i ricorrenti (fol. 8 del ricorso) – dalla motivazione di detta ordinanza non può farsi discendere, né si può presumere la qualificazione tout court delle “Norme Bancarie Uniformi ABI in materia di contratti di fideiussione” quali intese illecite, in quanto contenenti clausole contrarie a norme imperative, né la nullità in toto del contratto di fideiussione di cui si discute: in disparte dalla mancanza di specificità del motivo circa il puntuale contenuto delle norme cui si intende far riferimento diverse dalla clausole 2, 6 e 8, tale assunto non appare affatto né preliminare, né logicamente conseguenziale al tema trattato nell’ordinanza che – si ribadisce concerne la efficacia temporale del provvedimento della Banca d’Italia, così come esattamente ritenuto anche dalla Corte di appello partenopea (fol. 13 della sent. imp.), e non già il complessivo apparato delle NBU in tema di fideiussione.
Tornando al caso in esame, va quindi osservato che, avendo l’Autorità amministrativa circoscritto l’accertamento della illiceità ad alcune specifiche clausole delle NBU trasfuse nelle dichiarazioni unilaterali rese in attuazione di dette intese (fol. 3 della sent. imp.), ciò non esclude, ne è incompatibile, con il fatto che in concreto la nullità del contratto a valle debba essere valutata dal giudice adito alla stregua degli artt. 1418 c.c. e ss. e che possa trovare applicazione l’art. 1419 c.c., come avvenuto nel presente caso, laddove l’assetto degli interessi in gioco non venga pregiudicato da una pronuncia di nullità parziale, limitata alle clausole rivenienti dalle intese illecite.
Non merita condivisione il profilo di doglianza relativo alla impossibilità di provare la decisività delle clausole ai fini della conclusione del contratto, in ragione della predisposizione unilaterale dello schema contrattuale da parte della banca: in disparte dalla assertività della censura, risulta decisiva la preliminare considerazione che le clausole in questione erano funzionali all’interesse della banca e non dei fideiussori e che quindi, logicamente, solo la banca avrebbe potuto dolersi della loro espunzione.
Va osservato in proposito che la decisione della Corte di appello, che ha ritenuto di preservare la dichiarazione fideiussoria espungendo le clausole frutto di intese illecite, favorevoli alla banca, che non incidevano sulla struttura e sulla causa del contratto, non ha pregiudicato la posizione dei garanti, che risulta meglio tutelata proprio in ragione della declaratoria di nullità parziale.
3.1. Con il terzo motivo si denuncia la violazione e/o falsa applicazione e/o falsa interpretazione dell’art. 1176 c.c. e dell’art. 1418c.c., nonché dell’art. 183 c.p.c., comma 7, in merito alla statuizione che ha escluso che il contratto di finanziamento in esame potesse qualificarsi come “mutuo di scopo”.
3.2. Il motivo è inammissibile.
3.3. La doglianza, proposta come violazione di legge, sostanzialmente sollecita un diverso esame di una serie di elementi concernenti i risalenti ed articolati rapporti intercorsi tra la banca, la società ed i fideiussori, che involgono un sindacato di fatto.
In proposito, da un lato va rimarcato che, in merito alle circostanze riferite nel motivo, non è dato sapere, per difetto di specificità, nemmeno se ed in che termini siano state sottoposte ai giudici di merito; dall’altro che la doglianza avrebbe dovuto essere formulata, ove ne ricorressero i presupposti, come vizio motivazionale, prospettando fatti decisivi non esaminati, diversi da quelli accertati dalla Corte di appello e posti a fondamento della decisione sul punto.
4.1. La richiesta di valutare la natura temeraria della lite, con conseguente liquidazione equitativa del danno, formulata dalla controricorrente, va respinta.
4.2. Invero per la richiesta condanna è necessario l’accertamento, in capo alla parte soccombente, della mala fede (consapevolezza dell’infondatezza della domanda) o della colpa grave (per carenza dell’ordinaria diligenza volta all’acquisizione di detta consapevolezza) – venendo in considerazione, a titolo esemplificativo, la pretestuosità dell’iniziativa giudiziaria per contrarietà al diritto vivente ed alla giurisprudenza consolidata, la manifesta inconsistenza giuridica delle censure in sede di gravame ovvero la palese e strumentale infondatezza dei motivi di impugnazione (Cass. Sez. U. n. 22405 del 13/09/2018; cfr. anche Cass. n. 7901 del 30/03/2018) – e, nel presente caso, tali presupposti non ricorrono.
5. In conclusione il ricorso va rigettato.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo.
Si dà atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.
P.Q.M.
– Rigetta il ricorso;
– Condanna i ricorrenti in solido alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 8.000,00=, oltre ad Euro 200,00= per esborsi, alle spese generali liquidate forfettariamente nella misura del 15% ed agli accessori di legge;
– Dà atto, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 4 aprile 2019.
Depositato in Cancelleria il 26 settembre 2019
STUDIO LEGALE AVVOCATO FRANCESCO NOTO – COSENZA – NAPOLI