Il Consiglio di Stato ribalta un primo verdetto del TAR Lazio, e ritiene illegittimo l’Ordine impartito dalla Banca d’Italia a Silvio Berlusconi di alienare le partecipazioni detenute in Mediolanum, sul presupposto che l’ex Presidente del Consiglio abbia perso i requisiti di onorabilità, già previsti per chi detiene partecipazioni qualificate al capitale delle banche, ed oggi estesi, in forza del Decreto Legislativo 4 Marzo 2014 N° 53, alle Società di Partecipazione Finanziaria. Per i Giudici di Palazzo Spada il principio di irretroattività della legge, specie allorquando afferente la spendita di poteri ablatori, restrittivi della sfera giuridica del privato, rappresenta un’eccezione, necessariamente da esplicitare nel corpo normativo di riferimento. L’art. 2, comma 5, lett. a), d.lgs.4 marzo 2014, n. 53, che ha esteso a coloro che detengono partecipazioni nel capitale delle Società di Partecipazione Finanziaria Mista (SPFM) i requisiti di onorabilità previsti per i partecipanti al capitale delle banche di cui all’art. 25 del T.U.B., non può conoscere impiego retroattivo, ed applicarsi a chi ha perso i requisiti di onorabilità anteriormente all’introduzione dei requisiti medesimi (Consiglio di Stato, Sezione VIª, Sentenza 3 Marzo 2016, N° 882).
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 6516 del 2015, proposto da:
Berlusconi Silvio, rappresentato e difeso dagli avvocati Andrea Di Porto, Andrea Saccucci, Luigi Medugno, con domicilio eletto presso l’avvocato Andrea Di Porto in Roma, Via Giovanni Battista Martini N. 13;
contro
Banca d’Italia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso per legge dagli avvocati Marino Ottavio Perassi, Olina Capolino, Marco Mancini, domiciliata in Roma, Via Nazionale, 91;
Istituto per la Vigilanza sulle Assicurazioni – Ivass, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso per legge dagli avvocati Massimiliano Scalise, Enrico Galanti, domiciliata in Roma, Via del Quirinale 21;
nei confronti di
Ministero dell’Economia e delle Finanze, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliataria in Roma, Via dei Portoghesi, 12;
Fininvest s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Michele Carpinelli, Francesco Scanzano, con domicilio eletto presso l’avvocato Francesco Scanzano in Roma, Via XXIV Maggio, 43;
Mediolanum Spa;, Fin. Prog. Italia s.a.p.a. di E.Doris & C., Ennio Doris, Sirefid s.p.a.;
Holding Italiana Quarta s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Romano Vaccarella, con domicilio eletto presso l’avvocato Romano Vaccarella in Roma, corso Vittorio Emanuele II 269;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. LAZIO – ROMA: SEZIONE III n. 07966/2015, resa tra le parti, concernente sospensione del diritto di voto e degli altri diritti che consentono di influire su Mediolanum s.p.a.;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Banca d’Italia, dell’Istituto per la Vigilanza sulle Assicurazioni, del Ministero dell’Economia e delle Finanze, di Fininvest s.p.a., di Holding Italiana Quarta s.p.a.;
Visto l’appello incidentale proposto da Finisvest s.p.a.;
Visto l’appello incidentale adesivo proposto da Holding Italiana Quarta s.p.a.;
Visto l’appello incidentale condizionato proposto dalla Banca d’Italia
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 14 gennaio 2016 il Cons. Roberto Giovagnoli e uditi per le parti l’avvocato Di Porto, l’avvocato Medugno, l’avvocato Saccucci, l’avvocato Scalise, l’avvocato Capolino, l’avvocato Mancini, l’avvocato Vaccarella, l’avvocato Scanzano e l’avvocato dello Stato De Nuntis;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. Silvio Berlusconi ha impugnato il provvedimento del 7 ottobre 2014 (delibera n. 519/204, prot. n. 976145/14) con il quale la Banca d’Italia, d’intesa con l’istituto per la Vigilanza sulle Assicurazioni private (di seguito anche solo IVASS), ha accertato la carenza in capo all’odierno appellante principale del requisito reputazionale previsto per la detenzione di partecipazioni qualificate in intermediari finanziari, ha rigettato ’istanza di autorizzazione avanzata dalla Finivest s.p.a. – anche per conto di Silvio Berlusconi – a detenere partecipazioni qualificate nella Mediolanum s.p.a. e ha disposto la sospensione dei diritti di voto e l’alienazione delle partecipazioni (eccedenti le soglie previste dalla legge) detenute in Mediolanum.
2. I principali elementi che compongono lo scenario nel quale si inquadra il presente contenzioso possono essere così sintetizzati.
3. Silvio Berlusconi, per il tramite della controllata Fininvest s.p.a., detiene dalla metà degli anni novanta, una partecipazione qualificata in Mediolanum s.p.a., Società di Partecipazione Finanziaria Mista (SPFM), in misura superiore al 30%.
Il 1° agosto 2013 diviene irrevocabile la condanna dello stesso Berlusconi alla pena della reclusione di anni quattro (di cui tre condonati) per il reato di cui all’art. 4, lettera f), l. n. 516/1982, in relazione all’art. 2 d.lgs. n. 74/2000).
Il 16 aprile 2014 entra in vigore il d.lgs. n. 53/2014, che, all’art. 2, comma 5, lettera a), estende alla SPFM la disciplina contenuta nel Titolo II, Capi III e IV, TUB, e dunque, estende a coloro che detengano (direttamente o indirettamente) una partecipazione superiore al 9,99% nel capitale delle SPFM anche i requisiti di onorabilità previsti peri partecipanti al capitale delle banche dall’art. 25 TUB.
Con il provvedimento del 7 ottobre 2014, la Banca d’Italia, d’intesa con l’IVASS, vista la carenza in capo a Silvio Berlusconi “del requisito reputazionale previsto dalla Direttiva 2007/44/UE – confluita nella Direttiva 2013/36/UE (CRDIV) dell’1.1.2014 – e alle Joint Guidelines for Prudential assesment of acquisitions and increases in holdings in the financial sector required by Directive 2007/44/UE”: a) disponeva l’applicazione delle “sanzioni” previste dagli artt. 24 e 25 TUB: sospensione dei diritti di voto e obbligo di alienazione della partecipazione eccedente il 9,99%; b) accoglieva la proposta formulata da Fininvest nel corso del procedimento di istituire un trust cui trasferire la partecipazione de quo purché il trust rispettasse le condizioni previste nel provvedimento medesimo; c) assegnava alla Fininvest un termine di venti giorni per comunicare l’adesione alle condizioni formulate ai fini del loro recepimento nell’istituendo trust; d) riservava alle Autorità di vigilanza la verifica del rispetto della condizioni avvertendo che la mancata osservanza di essere avrebbe comportato l’obbligo di dismissione delle partecipazioni eccedentarie.
4. In data 9 gennaio 2015 la Fininvest comunicava alla Banca d’Italia l’avvenuta costituzione del trust, trasmettendo la relativa documentazione. Quale trustee veniva individua la Si.re.fid. s.p.a., società appartenente al gruppo Intesa San Paolo, che presentava alla Banca d’Italia e all’IVASS istanza di autorizzazione a rendersi cessionaria della partecipazione oggetto del provvedimento della banca d’Italia. Verificata la sussistenza dei relativi presupposti la Banca d’Italia rilasciava l’autorizzazione il 23 aprile 2015.
5. Nel frattempo, il 7 gennaio 2015, Silvio Berlusconi interponeva ricorso straordinario al Presidente della Repubblica avverso il provvedimento. A seguito dell’opposizione della Banca d’Italia il ricorso straordinario veniva trasposto in sede giurisdizionale.
6. Nel giudizio trasposto dinnanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio è intervenuta, proponendo “atto di intervento adesivo autonomo da valere anche quale ricorso autonomo” la società Holding Italiana Quarta, socia della Finivest.
7. In giudizio si è costituita anche la Fininvest chiedendo l’accoglimento del ricorso.
8. Con la sentenza di estremi indicati in epigrafe, il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio ha:
– dichiarato irricevibile e, comunque, inammissibile l’atto di costituzione in giudizio da parte della società Fininvest, della quale ha disposto l’estromissione dal giudizio;
– inammissibile l’intervento adesivo autonomo della società Holding Italiana Quarta, la quale non è stata, tuttavia, estromessa dal giudizio in quanto il suo intervento è stato riqualificato in termini di intervento adesivo dipendente.
– respinto il ricorso principale e il primo atto di motivi aggiunti proposto da Silvio Berlusconi.
– dichiarato irricevibile per tardività il secondo atto di motivi aggiunti.
9. Per ottenere la riforma di tale sentenza ha proposto appello principale Silvio Berlusconi, articolando tre blocchi di motivi che possono essere così sintetizzati:
– con il primo blocco critica la sentenza del T.a.r. nella parte in cui ha ritenuto la disciplina transitoria contenuta nell’art. 2 del d.m. 144/1998 incompatibile con la Direttiva 2007/44/CE e, comunque, inoperante per non oggetto del rinvio disposto dall’art. 25 TUB;
– con il secondo blocco ripropone le questioni di legittimità sia costituzionale che comunitaria della disciplina che ha introdotto l’obbligo di alienazione delle azioni;
– con il terzo blocco critica la sentenza del T.a.r nella parta in cui ha ritenuto l’irricevibilità e comunque l’infondatezza dei secondi motivi aggiunti proposti.
10. La Holding Italiana Quarta, pur prestando acquiescenza alla dichiarazione di inammissibilità dell’intervento adesivo autonomo proposto in primo grado, ha proposto, tuttavia, appello incidentale adesivo, riproponendo nella sostanza le medesime doglianze già proposte in primo grado, peraltro sovrapponibili ai motivi quarto, quinto e sesto (quelli del c.d. secondo blocco) dell’appello principale.
11. Ha proposto un appello incidentale anche la Fininvest, la quale ha impugnato preliminarmente il capo della sentenza che ha dichiarato inammissibile la sua costituzione in giudizio, e nel merito, ha aderito alle censure dell’appellante principale chiedendo la riforma della sentenza appellata e l’accoglimento del ricorso di primo grado.
12. Si è costituita in giudizio la Banca d’Italia, la quale, oltre a chiedere il rigetto degli appelli, principale e incidentale proposti rispettivamente da Silvio Silvio Berlusconi, da Holding Italiana Quarta e da Fininvest, ha, a sua volta, proposto appello incidentale condizionato per far valere la carenza di interesse al ricorso e di autonoma legittimazione attiva di Silvio Berlusconi e di Holding Italiana Quarta.
13. Si sono costituiti in giudizio anche l’IVASS e Il Ministero dell’economia e delle finanze, chiedendo il rigetto dell’appello principale e degli appelli incidentali di Fininvest e di Holding Italiana Quarta.
14. Alla pubblica udienza del 14 gennaio 2016 l’appello è stato chiamato per la discussione del merito.
15. Nel corso della discussione, la Banca d’Italia ha sollevato una eccezione pregiudiziale di improcedibilità dell’appello principale per sopravvenuta carenza di interesse.
Secondo la Banca d’Italia, la sopravvenuta carenza di interesse deriverebbe dal progetto di fusione per incorporazione di Mediolanum s.p.a. in Banca Mediolanum s.p.a., deliberato dagli organi deliberativi delle predette società il 25 maggio 2015 e divenuto efficace, eseguite le iscrizioni di cui all’art. 2504 Cod. civ., il 30 dicembre 2015.
Come risulta dalla nota prot. n. 0803101/15 del 23 luglio 2015 (depositata nel corso dell’udienza dai difensori dell’appellante principale), il progetto di fusione per incorporazione è stato autorizzato, ai sensi dell’art. 57 TUB, da Banca d’Italia con provvedimento n. 796932/21 del 21 luglio 2015.
Nella citata nota prot. n. 0803101/15, Banca d’Italia ha comunicato che – in relazione e per effetto dell’operazione di fusione – l’obbligo di dismissione di cui al provvedimento del 7 ottobre 2014 «deve intendersi riferito alle azioni di Banca Mediolanum che, in esito all’iter civilistico della fusione, verranno assegnate in concambio delle azioni di Mediolanum s.p.a. ».
Secondo Banca d’Italia, alla luce di tale operazione di fusione (e della relativa autorizzazione subordinata al rispetto dell’obbligo di alienazione di cui al provvedimento impugnato nel presente giudizio), sarebbe venuto meno l’interesse dell’appellante principale all’impugnazione del provvedimento in oggetto, atteso che il suo eventuale annullamento non potrebbe sortire effetti utili.
16. Con maggiore dettaglio, secondo Banca d’Italia la carenza di interesse deriverebbe dalle seguenti considerazioni: a) l’annullamento del provvedimento oggetto del presente giudizio non travolgerebbe, comunque, l’obbligo di alienazione disposto in sede di rilascio dell’autorizzazione al progetto di fusione; b) in ogni caso, l’eventuale annullamento del provvedimento in oggetto, farebbe venir meno un presupposto dell’autorizzazione al progetto di fusione, con conseguente travolgimento della stessa; c) alla luce dell’avvenuta fusione per incorporazione di Mediolanum s.p.a. in Banca Mediolanum s.p.a., la questione dedotta nel primo blocco di motivi, relativa alla contestata applicazione retroattiva dei requisiti di onorabilità di cui al d.lgs. 53/2014 alle Società di Partecipazione Finanziaria Mista (nel caso di specie Mediolanum s.p.a.), sarebbe ormai superata, venendo in considerazione una banca (Banca Mediolanum s.p.a.).
17. Le parti private (Berlusconi, Fininvest e Holding Italiana Quarta) hanno contestato la fondatezza dell’eccezione di sopravvenuta carenza di interesse rilevando, fra l’altro: a) la tardività dell’eccezione sollevata direttamente in udienza ma fondata su circostanze di fatto (l’approvazione del progetto di fusione e la successiva autorizzazione) note sin dai mesi di maggio 2015 e luglio 2015; b) l’irrilevanza, comunque, di tale vicenda rispetto all’oggetto del contendere nel presente giudizio, anche in considerazione dell’avvenuta impugnazione del provvedimento n. 0803101/15 del 27 luglio 2015 (che ha confermato l’obbligo di alienazione anche rispetto alla fusione) e degli effetti caducanti o, comunque, invalidanti che il “nuovo” obbligo di alienazione subirebbe in seguito all’annullamento del provvedimento oggetto del presente giudizio.
18. All’esito della discussione la causa è stata trattenuta per la decisione.
19. Occorre, anzitutto, esaminare l’eccezione di improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse sollevata direttamente in udienza dalla Banca d’Italia.
20. L’eccezione non è fondata.
21. La nota n. 0803101/15 del 23 luglio 2015 avente per oggetto «Fusione per incorporazione di Mediolanum s.p.a. in Banca Mediolanum» è un atto meramente ricognitivo con il quale Banca d’Italia si limita a comunicare che: a) è stata rilasciata l’autorizzazione al progetto di fusione per incorporazione di Mediolanum s.p.a. in Banca Mediolanum s.p.a.; b) in relazione e per effetto dell’operazione di fusione l’obbligo di dimissione oggetto del provvedimento impugnato nel presente giudizio «deve intendersi riferito alle azioni di Banca Mediolanum che, in esito all’iter civilistico della fusione, verranno assegnate in concambio delle azioni di Mediolanum s.p.a. ».
Alle azioni di Banca Mediolanum viene, quindi, automaticamente esteso, senza nuova ed autonoma valutazione, lo stesso obbligo di alienazione già disposto, attraverso il provvedimento impugnato, nei confronti delle azioni di Mediolanum s.p.a.
Si tratta non di un nuovo provvedimento, ma di una mera conferma di quello già adottato, i cui effetti vengono automaticamente riferiti alle azioni di Banca Mediolanum assegnate in concambio delle azioni di Mediolanum s.p.a. per effetto della fusione.
La natura meramente confermativa e ricognitiva del nuovo atto fa sì, in conformità a principi consolidati nella giurisprudenza amministrativa, che l’annullamento dell’atto a monte (quello confermato) sia in grado di determinare l’automatica caducazione dell’atto a valle (quello di mera conferma), che rimarrebbe privato del suo oggetto giuridico.
22. Né può ritenersi che l’annullamento dell’obbligo di alienazione avrebbe l’effetto di travolgere il provvedimento (n. 796932 del 21 luglio 2015) di autorizzazione alla fusione per incorporazione.
Il rapporto che esiste tra l’autorizzazione alla fusione e l’atto che dispone l’obbligo di alienazione non è, infatti, riconducibile alla categoria della presupposizione/consequenzialità tra atti.
Il rapporto di presupposizione/consequenzialità richiede l’identità dell’interesse finale perseguito o, quanto meno, l’omogeneità/affinità degli effetti prodotti dai diversi atti, che devono essere rivolti, nonostante la loro autonoma identità, verso la realizzazione di un obiettivo unitario, che si realizza come risultato di effetti diversi ma convergenti nella stessa direzione.
Similmente a quanto avviene civilisticamente attraverso la figura del collegamento negoziale, dove le cause distinte dei negozi collegati, pur non perdendo la propria identità, concorrono alla realizzazione di una causa unitaria, così il rapporto di presupposizione tra atti amministrativi richiede, mutatis mutandis, che la funzione di ogni singolo atto collegato concorra, ponendosi lungo una medesima direzione, alla realizzazione di una funzione complessiva unitaria.
Ogni singolo atto è, dunque, coessenziale alla realizzazione della funzione unitaria perseguita, il che ha come naturale conseguenza l’applicazione del principio (comune anche al collegamento negoziale) simul stabunt simul cadent, perché se viene meno l’atto presupposto l’atto consequenziale non è più in grado, da solo, di realizzare la causa unitaria che giustifica l’operazione unitaria realizzata tramite gli atti collegati.
Tale direzione unitaria verso la quale gli effetti dei singoli atti sono protesi non è, tuttavia, configurabile nel caso in cui gli atti che vengono in rilievo producano effetti totalmente divergenti, persino contrastanti, nel senso che un atto, anziché cooperare alla realizzazione della funzione svolta dall’altro, ponendosi così come suo indispensabile presupposto, va a limitarne gli effetti e a restringerne la portata.
Questa seconda situazione è proprio quella che ricorre, nel caso oggetto del presente giudizio, tra l’atto di autorizzazione e l’obbligo di alienazione.
Si tratta, all’evidenza, di atti che non convergono verso un medesimo risultato: lo dimostra la stessa circostanza che un atto produce effetti positivi ed è rilasciato a istanza di parte, mentre l’altro produce effetti negativi (sostanzialmente ablatori) ed è adottato d’ufficio.
La diversa natura dei procedimenti (uno d’ufficio, l’altro ad istanza di parte) e la radicale differenza degli effetti (i primi ablatori, i secondi ampliativi) portano ad escludere la configurazione di un rapporto di presupposizione/consequenzialità governata dalla regola dl simul stabunt simul cadent.
Sarebbe paradossale, del resto, sostenere che un atto autorizzatorio/ampliativo possa trovare il suo indispensabile presupposto in un atto negativo/ablatorio, con l’ulteriore paradossale conseguenza che il privato destinatario di entrambi sarebbe “costretto” pur di non perdere gli effetti favorevoli dell’autorizzazione a prestare acquiescenza all’atto che lo limita e lo lede.
23. Esclusa la configurabilità di un rapporto di presupposizione/consequenzialità, la categoria giuridica che meglio si presta ad inquadrare il rapporto tra i due atti è quello della condizione: l’efficacia dell’autorizzazione rilasciata dalla Banca d’Italia al progetto di fusione è condizionata all’adempimento dell’obbligo di alienazione disposto attraverso il provvedimento impugnato nel presente giudizio.
Tale qualificazione, oltre ad imporsi alla luce delle precedenti considerazioni di carattere teorico-sistematico, trova, del resto, sostegno nello stesso tenore letterale della nota del 23 luglio 2015 prot. n. 0803101/15, in cui si fa esplicito riferimento alla “condizione” nella parte finale (ultimo periodo) in cui la Banca d’Italia ha cura di precisare che rimangono ferme «tutte le altre condizioni del suddetto provvedimento, compreso il termine ultimo di trenta mesi dall’istituzione del trust per il completamento della cessione a terzi dell’interessenza».
La qualificazione dell’obbligo di alienazione in termini di clausola accessoria condizionale del provvedimento di autorizzazione alla fusione esclude la possibilità di invocare il principio simul stabunt simul cadent e, quindi, esclude che il provvedimento autorizzatorio condizionato venga automaticamente travolto per effetto dell’illegittimità della condizione ad esso apposto.
24. Occorre evidenziare che non può in questo caso trovare applicazione la previsione di cui all’art. 1354, primo comma, Cod. civ., secondo cui la condizione illecita, sospensiva o risolutiva, rende nullo il contratto cui è apposta.
L’applicazione della norma civilistica è impedita da una pluralità di considerazioni.
In primo luogo, deve evidenziarsi come la categoria della nullità nel diritto amministrativo rappresenti una forma di invalidità eccezionale e tipica, che, in omaggio ai principi di certezza dei rapporti giuridici e di stabilità degli assetti plasmati dagli atti amministrativi a tutela di interessi superindividuali, non opera in maniera “virtuale”, cioè in assenza di una norma che la preveda testualmente (cfr. in tal senso l’art. 21-septies legge 7 agosto 1990, n. 241). Già in questo si coglie la prima profonda differenza rispetto alla disciplina civilistica del negozio giuridico, dove, invece, la nullità rappresenta la forma di invalidità “residuale”, destinata ad operare, alla luce della generale previsione di cui all’art. 1418, primo comma, Cod. civ., in via “virtuale”, ogni qualvolta il contratto è contrario a norma imperativa, salvo che la legge disponga diversamente.
È una differenza di fondo che trova la sua spiegazione nella rammentata circostanza che nel diritto amministrativo prevale l’esigenza di assicurare la stabilità, la certezza e, dunque, la conservazione degli atti amministrativi, il che implica l’applicazione di un regime di invalidità nel quale la categoria generale e virtuale è l’annullabilità.
L’esigenza di certezza e di stabilità che ispira la disciplina dell’invalidità del provvedimento amministrativo, oltre a fare della nullità una categoria “eccezionale” si oppone anche all’applicazione del principio (sotteso alla previsione dell’art. 1354, prima comma, cod. civ.) del principio utile per inutile vitiatur (del principio cioè in base al quale l’invalidità di una singola clausola rende invalido, l’intero atto, travolgendolo anche nella parte priva di vizi propri).
Nel diritto amministrativo, al contrario, prevale l’esigenza di conservazione degli atti legittimi, determinando l’operatività di un opposto principio generale, sintetizzabile attraverso il brocardo utile per inutile non vitiatur, non potendosi certamente ammettere che un provvedimento di per sé immune da vizi, sia travolto a causa dell’illegittimità che colpisce un elemento accessorio di quell’atto, volto a limitarne gli effetti, condizionandone l’operatività all’adempimento di un obbligo illegittimo.
Tale principio trova, d’altra parte, frequente applicazione nei casi di impugnazione delle c.d. autorizzazioni rilasciate con prescrizioni (alla condizione cioè che rispettino certe prescrizioni contestualmente impartite). In tali fattispecie, la giurisprudenza amministrativa ammette pacificamente che il privato possa limitare l’impugnazione alla prescrizione condizionante, escludendo che l’annullamento di quest’ultima travolga l’autorizzazione condizionata. L’autorizzazione, in caso di accoglimento del ricorso contro la condizione che la limita, sopravvive depurata dalla prescrizione illegittima.
Se così non fosse, del resto, il privato sarebbe leso nell’esercizio del suo diritto di difesa, perché, a fronte di una prescrizione illegittima, sarebbe costretto ad una scelta tra due opzioni entrambe penalizzanti: accettare la condizione illegittima o rischiare di perdere l’autorizzazione favorevole.
25. Le considerazioni che precedono consentono, quindi, di concludere che nel diritto amministrativo l’invalidità parziale (che colpisce una parte accessoria del provvedimento, quale, per definizione, è la clausola condizionale) non travolge, di regola, l’intero provvedimento, specie quando la clausola illegittimità è diretta a limitare l’operatività di atti legittimi ampliativi, come accade in questo caso rispetto al provvedimento di autorizzazione del provvedimento di fusione.
26. Va, peraltro, ulteriormente rilevato che nel caso in esame, il provvedimento di autorizzazione di cui si invoca la caducazione (o l’invalidità derivata) per effetto dell’annullamento della condizione rappresentata dall’atto impositivo dell’obbligo di alienazione, ha ad oggetto una fusione che, come concordemente dichiarato dalle parti nel corso della discussione orale, è divenuta definitivamente efficace, eseguite le iscrizioni di cui all’art. 2504 Cod. civ., in data 30 dicembre 2015.
La circostanza assume rilievo atteso che, ricorrendo tale situazione, l’esigenza di stabilità della fusione trova fondamento (oltre nelle considerazioni già svolte in ordine al generale principio di conservazione degli atti amministrativi), anche nella stessa disciplina civilistica, atteso che lo stesso art. 2504-quater cod. civ. stabilisce testualmente «Eseguite e iscrizione dell’atto di fusione a norma del secondo comma dell’art. 2504, l’invalidità dell’atto di fusione non può essere pronunciata».
In tal modo, anche nella disciplina del diritto societario ha evidentemente prevalso l’intento di favorire la sicurezza de rapporti verso l’esterno e la consapevolezza dei gravi problemi che potevano nascere da una dichiarazione di invalidità dopo che la fusione sia stata attuata (si pensi alle gravissime difficoltà che presenterebbe infatti, la suddivisione dei patrimoni ormai unificati e la ricostituzione delle compagini sociali delle diverse società partecipanti alla fusione).
Anche il legislatore civilistico, quindi, ha affrontato il problema delle conseguenze di eventuali invalidità incorse nell’iter di fusione dando nettamente prevalenza dell’esigenza di conservazione degli effetti dell’atto.
La norma civilistica sembra, dunque, escludere che anche l’eventuale invalidità del provvedimento di autorizzazione possa comunque, pregiudicare la validità dell’atto negoziale di fusione.
Si tratta, peraltro, di una soluzione non sconosciuta al diritto amministrativo: basti pensare, a titolo di esempio, alla possibile sopravvivenza del contratto di appalto pubblico nonostante l’annullamento dell’aggiudicazione ai sensi degli artt. 121 e 122 Cod. proc. amm.
27. Infine, il venir meno dell’interesse al ricorso non può ricavarsi dall’eventualità che rispetto alla società risultante dalla fusione la Banca d’Italia potrebbe, in ipotesi, applicando una disciplina diversa da quella su cui si fonda il provvedimento impugnato, adottarne in futuro uno di analogo contenuto.
Si tratta, invero, di una mera ipotesi, che riguarda l’eventualità di un futuro esercizio del potere, che non può, allo stato, far venire meno l’attualità dell’interesse all’annullamento del provvedimento attualmente lesivo degli interessi del ricorrente. Si ricordi, infatti, che ai sensi dell’art. 34, comma 2, Cod. proc. amm., il giudice amministrativo «non può pronunciare con riferimento a poteri non ancora esercitati» e non può farlo neanche al fine di desumere dal potere discrezionale non ancora esercitato la carenza di interesse al ricorso proposto contro l’atto espressione di un potere già esercitato.
Peraltro, anche in questo caso la disciplina civilistica sembra deporre nel senso della irrilevanza della fusione sulla disciplina dei rapporti, sostanziali e processuali, facenti capo sulle società partecipanti alla fusione. Ai sensi dell’art. 2504-bis, primo comma, Cod. civ., infatti, «la società che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione, proseguendo in tutti i loro rapporti, anche processuali alla fusione».
I diritti e gli obblighi gravanti su Banca Mediolanum s.p.a. (società incorporante) non possono, dunque, che essere gli stessi diritti e obblighi che gravavano, al momento della fusione, su Mediolanum s.p.a. E su tale assetto di diritti e di obblighi evidentemente influisce l’eventuale annullamento del provvedimento impositivo dell’obbligo di alienazione.
Gli effetti della fusione obbediscono, in altri termini, al principio di continuità, in quanto nell’impresa risultante dalla fusione confluiscono tutte quelle partecipanti alla fusione, nello stato in cui si trovano al momento della fusione. Tale principio di continuità, chiaramente enunciato con riferimento alle società partecipanti alla fusione, sembra potersi ragionevolmente estendere anche ai soci delle società partecipanti alla fusione che pure confluiscono nella nuova società o nella società incorporante nello stato in cui si trovano al momento della fusione.
28. Respinta la pregiudiziale eccezione di sopravvenuta carenza di interesse, gli appelli vanno esaminati nel merito.
29. Si pone, anzitutto, il problema del corretto ordine di esame delle questioni rispettivamente sollevate nell’appello principale, negli appelli incidentali delle parti private (Fininvest e Holding Quarta Italiana) e nell’appello incidentale condizionato della Banca d’Italia.
30. A rigore, infatti, le questioni sollevate dalla Consob nel suo appello incidentale condizionato avrebbero priorità logica, trattandosi di questioni pregiudiziali di rito che investono presupposti processuali o condizioni dell’azione (nel caso di specie, la sussistenza dei presupposti processuali della legittimazione a ricorrere e dell’interesse al ricorso in capo all’originario ricorrente).
La Banca d’Italia, tuttavia, proponendo appello incidentale in forma condizionata, ha subordinato l’esame di tali questioni pregiudiziali di rito, rispetto alle quali è rimasta soccombente (pur vittoriosa nel merito) nel giudizio di primo grado, al previo esame dell’appello principale. Ha così proposto al giudice un ordine di esame delle questioni diverso da quello naturale (che vede la priorità delle questioni pregiudiziali di rito, attenenti alla sussistenza dei presupposti processuali o delle condizioni dell’azione rispetto alle questioni di merito).
30. Occorre, quindi, stabilire se tale forma di condizionamento (e la conseguente alterazione dell’ordine logico di esame delle questioni che ne deriva) sia consentita.
Al quesito deve darsi risposta positiva, anche alla luce dell’orientamento ormai consolidatosi nella giurisprudenza della Corte di Cassazione (cfr. Cass. Sez. Un. 6 marzo 2009, n. 5456; Cass. Sez. Un. 31 ottobre 2007, n. 23019), con riferimento all’analoga questione che può porsi nell’ambito del processo civile. Ciò anche in considerazione del rinvio esterno contenuto nell’art. 39 Cod. proc. amm. alle disposizioni del codice di procedura civile in quanto compatibili o espressione di principi generali.
Il Collegio ritiene che l’esame dell’appello incidentale condizionato, proposto dalla parte totalmente vittoriosa nel merito su questioni pregiudiziali decise in senso ad essa sfavorevole, debba essere effettuato solamente se l’appello principale sia stato giudicato fondato, in caso contrario non sussistendo l’interesse dell’appellante incidentale alla pronunzia sulla propria impugnazione.
Il contrario precedente orientamento giurisprudenziale che richiamava – quale criterio per escludere sempre l’ammissibilità del condizionamento dell’impugnazione incidentale – la rilevabilità di ufficio della questione pregiudiziale di rito, trascurava di rilevare il fatto che quella distinzione perde peso allorché la questione “eccepibile” sia stata eccepita davanti al giudice di primo grado e quella “rilevabile” sia stata rilevata.
Ne consegue che, allorché la questione pregiudiziale o preliminare sia stata decisa dal giudice di primo grado, il riesame della questione da parte del Consiglio di Stato postula la proposizione di un’impugnazione, che è ammissibile in presenza di un interesse della parte, interesse che, per la parte totalmente vittoriosa, sorge solo nell’ipotesi della fondatezza dell’appello principale. In caso contrario, infatti, l’appellante incidentale manca di interesse alla pronuncia sulla propria impugnazione poiché il suo eventuale accoglimento non potrebbe procurargli un risultato più favorevole in concreto di quello derivante dal rigetto del ricorso principale e, anzi, con particolare riferimento all’eccezione di giurisdizione, comporterebbe il rischio del riesame della pronuncia favorevole ad opera del diverso giudice con esito incerto per l’appellante incidentale.
Quanto all’ eventuale considerazione secondo cui sussisterebbe in ogni caso la soccombenza sulla questione oggetto dell’appello incidentale, va osservato che la soccombenza c.d. formale (che legittima all’impugnazione) è il rigetto (o l’accoglimento) della domanda o di parte di essa e non soltanto la sfavorevole soluzione di una questione, secondo la dottrina classica.
In ogni caso, ove anche voglia ritenersi con la più moderna dottrina che soccombenza ed interesse all’impugnazione siano oggi espressioni che denotano distinti fenomeni, e che quindi anche la sfavorevole soluzione di questioni dia origine ad una vera e propria soccombenza (per quanto teorica), va osservato che manca l’interesse ad impugnare per la parte che abbia egualmente conseguito il successo sulla domanda.
Detto interesse diventa attuale (o, come è stato anche detto, sopravvenuto), solo con l’accoglimento dell’appello principale.
A seguito di tale accoglimento si perfeziona la fattispecie relativa alla legittimazione ad impugnare da parte dell’appellante incidentale, fattispecie composta dalla soccombenza e dall’interesse all’impugnazione.
Né in senso contrario vale la considerazione secondo cui l’ordine logico delle questioni da esaminare è rimesso al giudice, e non può essere condizionato dal potere dispositivo delle parti, se si tratta di questioni rilevabili d’ufficio (cfr. sul punto Cons. Stato, Ad. Plen. 25 aprile 2015, n. 5).
Tale principio vale, infatti, solo per giudizio di primo grado.
Quando, invece, la decisione su una questione vi è stata, il riesame della stessa da parte del giudice dell’impugnazione è rimesso necessariamente all’impulso di parte, per il principio devolutivo che regge il sistema delle impugnazioni. Se tale impulso di parte è condizionato all’accoglimento dell’impugnazione avversaria e quindi al sopravvenire della soccombenza anche formale e dell’interesse all’impugnazione, in questi termini va valutato dal giudice il mezzo impugnatorio proposto (cfr. in tal senso, da ultimo, Cons. Stato, sez. VI, 26 marzo 2015, n. 1596).
Inoltre è stato esattamente osservato che proprio l’ordine logico delle questioni da esaminare impone anzitutto l’esame del ricorso principale. Il ricorso della parte totalmente vittoriosa è condizionato de jure, perché solo a seguito dell’accertamento della fondatezza del ricorso principale si può dire che sia sorto l’interesse alla proposizione del ricorso incidentale.
Ciò comporta un triplice ordine di fatti costitutivi della legittimazione ad impugnare del resistente vittorioso: a) la soluzione sfavorevole di una questione pregiudiziale o preliminare; b) la proposizione di un ricorso principale da parte del soccombente nel merito; c) la fondatezza di quest’ultimo ricorso.
Proprio il previo esame del ricorso principale fa sì che il cosiddetto ordine logico della pregiudizialità sia rispettato in uno dei suoi profili più pregnanti in materia di impugnazioni, vale a dire nel divieto rivolto al giudice di esaminare il merito del gravame, prima di aver acclarato l’esistenza di tutti i relativi presupposti di ammissibilità, ivi compresa, appunto, la legittimazione ad impugnare, sotto il profilo dell’interesse.
31. Venendo all’esame degli appelli, principale e incidentale, proposti dalle parti private, risulta logicamente pregiudiziale l’appello incidentale proposto da Fininivest contro il capo della sentenza di primo grado che l’ha estromessa dal giudizio per decadenza e acquiescenza al provvedimento impugnato.
Va premesso che nel giudizio di primo grado, Fininvest non ha proposto intervento, ma si è limitata a costituirsi in giudizio, producendo memoria a sostegno della tesi del ricorrente principale, senza ampliare il thema decidendum, formulando motivi ulteriori di impugnazione. Lo stesso strumento processuale utilizzato (la costituzione in giudizio mediante deposito di memoria non notificata) esclude, infatti, la rituale proponibilità di motivi nuovi rispetto, i quali, anche se in ipotesi articolati, non potrebbero essere presi in alcuna considerazione.
32. Secondo la sentenza di primo grado, Fininvest, nella sua qualità di cointeressato (in quanto destinatario diretto dell’obbligo di alienazione imposto dal provvedimento) avrebbe dovuto impugnarlo (o spiegare un intervento adesivo) entro il termine di decadenza.
Il T.a.r. richiama a tal proposito l’art. 28 Cod. proc. amm., il quale consente l’intervento solo a chi, avendovi interesse e non essendo parte (necessaria) del giudizio «non sia decaduto dall’esercizio delle relative azioni».
Da tali premesse, la sentenza trae la conclusione che «né attraverso un ipotetico intervento adesivo autonomo esplicato oltre i termini, né a maggior ragione, mediante il meglio non identificato “atto di costituzione” in atti, è consentito ad un soggetto come la Fininvest, titolare di una situazione che la legittimava all’impugnativa in via principale, di poter aggirare il termine decadenziale di impugnazione che nella specie è inesorabilmente spirato».
In altre parole, secondo il T.a.r., il cointeressato che non impugni nei termini non può costituirsi nel giudizio di impugnazione instaurato da un altro cointeressato, né può spiegare, nella sua qualità di cointeressato, un intervento adesivo dipendente, stante l’incompatibilità della posizione dell’interventore dipendente con l’esistenza di un interesse autonomo all’impugnazione.
Inoltre, secondo il T.a.r., la costituzione in giudizio di Fininvest sarebbe inammissibile anche sotto un diverso ed autonomo profilo derivante dalla acquiescenza che la stessa avrebbe manifestato nei confronti del provvedimento impugnato nel momento in cui ha scelto di istituire iltrust finalizzato alla dismissione della partecipazione azionaria eccedentaria in Mediolanum, nel rispetto delle indicazioni e delle condizioni statuite nel provvedimento impugnato. Tale condotta (l’istituzione del trust) sarebbe, secondo il T.a.r., «oggettivamente esecutiva» del provvedimento, rappresentando, pertanto, «una scelta irreversibile ed incompatibile con la persistenza dell’interesse a ricorrere».
33. Le statuizioni della sentenza appellata in ordine alla partecipazione al giudizio di Fininvest non meritano condivisione.
Fininvest certamente, nella sua qualità di cointeressato, non avrebbe potuto proporre, una svolta spirato il termine di decadenza, né ricorso principale né un intervento adesivo autonomo (un intervento cioè caratterizzato dalla proposizione di una domanda di annullamento autonoma rispetto a quella articolata dal ricorrente principale).
Nel caso di specie, tuttavia, Fininvest si è limitata ad una costituzione in giudizio, presentando soltanto memorie a sostegno delle difese del ricorrente principale, senza pretendere di ampliare (e senza poterlo in alcun modo fare) il thema decidendum attraverso la proposizione di autonome censure.
34. A differenza di quanto ritenuto dal T.a.r., la possibilità per il cointeressato di costituirsi in giudizio a sostegno delle ragioni del ricorrente principale non può essere negata: non può esserlo in linea generale e, a maggior ragione, non può esserlo nel presente giudizio che nasce dalla trasposizione (in seguito all’opposizione presentata dalla Banca d’Italia) di un ricorso straordinario proposto al Presidente della Repubblica.
35. In linea generale, il Collegio ritiene che, anche alla luce della formulazione dell’art. 28 Cod. proc. amm., non via siano ostacoli ad ammettere, anche dopo la scadenza del termine di decadenza, un intervento adesivo dipendente del cointeressato, almeno laddove (come accade nella vicenda interessata dal presente giudizio) egli sia destinatario di atti ad effetti non frazionabili, il che si verifica appunto quanto l’annullamento del provvedimento non può che operare nei confronti di tutti i destinatari.
Diversi gli argomenti a sostegno di questa tesi.
In primo luogo, deve ritenersi che la ratio della previsione del termine di decadenza per proporre il ricorso (e la ratio dell’art. 28 Cod. proc. amm. che ammette l’intervento solo da parte di chi non sia decaduto dall’esercizio delle relative azioni) non sia quella di sanzionare i comportamenti inerti dei soggetti interessati, ma quella si assicurare la stabilità e la certezza dei rapporti giuridici e delle situazioni soggettive, evitando che l’azione amministrativa che si esprime attraverso un determinato provvedimento rimanga per troppo tempo controvertibile per via giurisdizionale.
Di conseguenza,a una volta che sia validamente instaurato, da uno dei suoi destinatari, un giudizio intorno alla legittimità del provvedimento amministrativo, non vi è più alcuna ragione di invocare il termine di decadenza e farlo operare non più sul piano oggettivo, ma su quello soggettivo, nel senso di precludere l’azione del legittimato che, pur senza ampliare il thema decidendum, voglia solo profittare del processo pendente per sostenere la tesi del ricorrente principale ed ottenere così, indirettamente, data la natura inscindibile degli effetti del provvedimento, la tutela della propria posizione.
Il cointeressato che intervenga ad adiuvandum in via adesiva dipendente, infatti, non pregiudica l’esigenza di stabilità e certezza dell’azione amministrativa sottesa alla previsione del termine di decadenza. Egli si inserisce in un contesto in cui al sorte dell’atto amministrativo è già incerta, e lo è in conseguenza della proposizione del ricorso principale: rispetto a tale situazione, il cointeressato, con il suo intervento adesivo dipendente, non propone nuove domande, né deduce nuovi vizi, ma chiede solo l’accoglimento della domanda proposta dal ricorrente principale.
Né si può sostenere che esisterebbe una ontologica incompatibilità tra la natura “dipendente” dell’interveniente e la natura autonoma della lesione che lo colpisce. L’intervento adesivo dipendente viene, infatti, così denominato, non perché chi se ne fa portatore è titolare di un interesse necessariamente “dipendente” rispetto a quello azionato in via principale, ma perché tramite questo tipo di intervento non si propongono autonome domande, limitandosi l’interventore dipendente a chiedere l’accoglimento del ricorso principale, senza disporre di autonomi poteri di impulso processuale.
Non vale invocare in senso contrario l’art. 28 Cod. proc. amm. che preclude l’intervento a chi sia decaduto dall’esercizio delle relative azioni, in quanto, come si è già accennato, questa norma vuole semplicemente escludere che attraverso l’intervento si possa essere rimessi in termini rispetto ad un’azione dal cui esercizio si è decaduti, ma non preclude la partecipazione al giudizio a chi, non volendo esercitare alcuna azione, voglia semplicemente tutelare il proprio interesse ad ottenere, tramite l’accoglimento del ricorso principale, l’eliminazione di un atto i cui effetti sono inscindibilmente lesivi anche del suo interesse.
36. Nel caso di specie, peraltro, Fininvest non ha neanche proposto un atto di intervento, ma si è limitata a costituirsi in giudizio e a sostenere le proprie posizioni depositando memorie difensive. L’estromissione di questo soggetto dal giudizio, nonostante la sua posizione di inscindibile cointeressenza, si tradurrebbe inevitabilmente nella lesione del diritto di difesa costituzionalmente garantito, senza che tale lesione possa, come si è detto, essere giustificata in nome delle esigenze sottese ad evitare elusioni dei termini di decadenza.
37. Non è senza conseguenze, inoltre, la constatazione che il presente giudizio deriva dalla trasposizione in sede giurisdizionale di un ricorso straordinario inizialmente proposto al Capo dello Stato.
Rispetto al ricorso straordinario, Fininvest, nella sua qualità di cointeressato avrebbe certamente potuto proporre opposizione ai sensi dell’art. 48 Cod. proc. amm. sollecitandone la trasposizione: il riconoscimento anche ai cointeressati dalla facoltà di proporre opposizione è stato riconosciuta sia dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (cfr. sent. 6 maggio 2013, n. 9), sia dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (cfr. sentenza 12 dicembre 2012, n. 234649).
E allora, una volta chiarito che ai cointeressati è data la facoltà di proporre opposizione, cioè la facoltà di sollecitare l’attivazione della fase giurisdizionale, non si vede come ai medesimi soggetti possa essere inibita la partecipazione a quella stessa fase nel caso in cui quest’ultima sia attivata da una parte diversa. È chiaro, infatti che ove una delle parti intenda avvalersi della facoltà di sollecitare la trasposizione del ricorso straordinario in sede giurisdizionale, l’esercizio legittimo di tale facoltà non può, comunque, produrre l’effetto di pregiudicare le posizione della altre parti, menomando le tutela di cui esse potevano fruire all’interno del procedimento originario.
È allora contraddittorio negare a chi avrebbe potuto persino dare impulso alla trasposizione in sede giurisdizionale la possibilità di costituirsi nel giudizio trasposto in seguito all’opposizione dell’Amministrazione resistente.
38. Non vale ad escludere la possibilità di costituirsi in giudizio neanche la presunta acquiescenza al provvedimento impugnato.
In primo luogo, l’acquiescenza, anche a ritenere che sia maturata, preclude la proposizione del ricorso, ma non la costituzione nell’ambito di un giudizio da altri instaurato, non potendosi attribuire all’acquiescenza effetti maggiormente preclusivi rispetto a quelli che derivano dalla decadenza.
In secondo luogo, secondo pacifica giurisprudenza, l’acquiescenza postula atti o comportamenti univoci posti liberamente in essere dal destinatario dell’atto che dimostrino la sua chiara e irrefutabile volontà di accettarne gli effetti.
In quanto incidente sul fondamentale diritto di agire in giudizio, l’accertamento in ordine all’avvenuta accettazione del contenuto e degli effetti di un provvedimento lesivo deve essere accurato ed esauriente e svolgersi su tutti i dati fattuali che hanno caratterizzato la dichiarazione negoziale, da cui deve risultare senza alcuna incertezza la presenza di una chiara intenzione definitiva di non rimettere in discussione l’atto lesivo.
È altrettanto pacifico in giurisprudenza che la mera esecuzione, anche senza riserve, del provvedimento non implica di per sé acquiescenza, in quanto il provvedimento amministrativo, fino al suo eventuale annullamento, produce effetti ed è immediatamente esecutivo. La sua esecuzione è, dunque, comportamento “neutro”, potendo trovare giustificazione, più che nell’univoca ed incondizionata volontà di accertarne gli effetti, nell’esigenza di evitare le conseguenze ulteriori che potrebbero derivare dalla sua inottemperanza.
39. Nel caso di specie, l’istituzione da parte della Fininvest del trust finalizzato alla dismissione della partecipazione azionaria eccedentaria ben può leggersi, anziché come univoca e incondizionata volontà di accettare gli effetti dell’atto, semplicemente come una condotta giustificata dalla preoccupazione di evitare gli effetti ancora più gravi derivanti dall’adozione dell’ordine di vendita prospettato dall’Autorità laddove Fininvest avesse operato in modo diverso.
40. L’appello incidentale proposto da Fininvest deve, pertanto, in questa parte essere accolto e, per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, deve riconoscersi la legittimità della sua costituzione in giudizio, al solo fine di sostenere le ragioni del ricorso principale e senza alcuna possibilità di ampliare il thema decidendum, escludendosi sin da ora l’esame di qualsiasi difesa o doglianza che possa determinare tale illegittimo ampliamento.
41. Deve a questo punto esaminarsi l’appello principale proposto da Silvio Berlusconi.
42. L’appello merita accoglimento.
Risultano fondati, in particolare, i motivi (primo, secondo e terzo) del c.d. primo blocco, attraverso i quali il ricorrente contesta la mancata applicazione della disciplina transitoria contenuta nell’art. 2 dl d.m. 18 marzo 1998, n. 144, che stabilisce l’irrilevanza della perdita dei requisiti di onorabilità se verificatesi prima dell’introduzione dei requisiti medesimi, relativamente alle partecipazioni già detenute, sempre da prima dell’introduzione di detti requisiti.
43. Giova ricostruire brevemente la normativa di riferimento sulla cui base è stato adottato il provvedimento impugnato.
L’art. 2, comma 5, lett. a) del decreto legislativo 4 marzo 2014, n. 53, modificando l’art. 63 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 –Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (TUB), ha esteso in blocco alle Società di Partecipazione Finanziaria Mista (SPFM) la disciplina contenuta nel Titolo II, Capi III e IV, TUB, e, dunque, ha esteso a coloro che detengono (direttamente o indirettamente) una partecipazione superiore al 9,99% nel capitale delle Società di Partecipazione Finanziaria Mista (SPFM) anche i requisiti di onorabilità previsti per i partecipanti al capitale delle banche dell’art. 25 TUB.
L’art. 25, comma 2, del TUB, a sua volta, rinvia per la puntuale individuazione dei requisiti di onorabilità ad un decreto ministeriale (adottato dal Ministero dell’economia e delle finanze sentita la Banca d’Italia). In attuazione di tale previsione legislativa è stato adottato il decreto ministeriale 18 marzo 1998, n. 144 (Regolamento recante norme per l’individuazione dei requisiti di onorabilità dei partecipanti al capitale sociale delle banche e fissazione della soglia rilevante).
Il decreto ministeriale n. 144/1998 si compone due soli articoli: l’articolo 1 elenca i requisiti di onorabilità o, meglio, individua le condanne che incidono in negativo sull’onorabilità determinando la perdita del requisito; l’articolo 2, dettando la disciplina transitoria, stabilisce che «per i soggetti che partecipano al capitale di una banca alla data di entrata in vigore del presente regolamento la mancanza dei requisiti di cui all’articolo 1 non previsti dalla normativa previgente non rileva, se verificatasi antecedentemente alla data stessa, limitatamente alla partecipazione già detenuta».
44. Secondo l’appellante principale, per effetto del duplice rinvio normativo (il nuovo testo dell’art. 63 TUB rinvia all’art. 25 TUB, il quale, a sua volta, rinvia al decreto ministeriale n. 144/1998), troverebbe applicazione anche la norma transitoria di cui all’art. 2 del decreto ministeriale con conseguente irrilevanza delle perdita dei requisiti di onorabilità verificatesi prima dell’introduzione dei requisiti medesimi (che per le SPFM è avvenuta il 16 aprile 2014, data di entrata in vigore del d.lgs. n. 54/2014) in relazione alle partecipazione già detenute.
Pertanto, considerando che Silvio Berlusconi, per il tramite della controllata Fininvest s.p.a., detiene dalla metà degli anni novanta (precisamente dal 1996) un partecipazione qualificata in Mediolanum s.p.a., Società di Partecipazione Finanziaria Mista, in misura superiore al 30% e che la condanna penale che avrebbe determinato la perdita del requisito di onorabilità è divenuta irrevocabile il 1° agosto 2013, egli rientrerebbe nel campo di applicazione della norma transitoria, e non sarebbe, pertanto, soggetto alla nuova disciplina dei requisiti di onorabilità estesa alla SPFM.
Sia la perdita del requisito di onorabilità sia la detenzione della partecipazione si collocherebbero, infatti, sotto il profilo temporale, in data anteriore rispetto alla data di entrata in vigore della nuova disciplina.
45. La sentenza appellata ha respinto tale tesi rilevando, in sintesi, che l’art. 2 del d. m. n. 144 del 1998 sarebbe stato tacitamente abrogato dalla direttiva 2007/44/CE e che, comunque, tale norma non sarebbe oggetto del rinvio disposto dall’art. 25 TUB, che avrebbe ad oggetto, quindi, solo l’art. 1 del regolamento ministeriale.
46. Più nel dettaglio, secondo il T.a.r., la norma transitoria di cui all’art. 2 d.m. n. 144/1998 sarebbe stata tacitamente abrogata per effetto dell’adozione della direttiva 2007/44/CE, «la quale avrebbe introdotto un più ampio ed elastico requisito “reputazionale” a cui l’acquirente e titolare (diretto o indiretto) di una partecipazione bancaria rilevante si deve conformare e che è sottoposta ad una valutazione ampia e discrezionale delle varie Autorità di Vigilanza dei Paesi UE, le quali senza essere vincolate alla mera applicazione di elementi puntualmente predeterminati dalla legge, devono valutare preventivamente la qualità del candidato acquirente di una società bancaria, tenendo in debito conto, in primis la sua reputazione».
Secondo il T.a.r., in altri termini, la normativa comunitaria imporrebbe alle Autorità di vigilanza di valutare la sussistenza del requisito reputazionale in maniera autonoma e disancorata dall’elenco tassativo delle condanne (di cui all’art. 1 del decreto ministeriale n. 144/1998) che determinano la perdita automatica del requisito di onorabilità, con la conseguenza che potrebbe essere ritenuto privo del requisito reputazionale, anche sulla base di condotte pregresse all’entrata in vigore della nuova disciplina, anche chi non ha riportato condanne penale automaticamente preclusive al riconoscimento del requisito di onorabilità.
In tale contesto, prosegue la sentenza appellata, l’applicazione della norma transitoria di cui all’art. 2 del d.m. n. 144 del 1998 darebbe luogo a risultati irragionevoli nella misura in cui «le condotte maggiormente riprovevoli, oggetto di condanna penale e rilevanti ai sensi dell’art. 25 TUB, beneficerebbero di un trattamento di maggior favore usufruendo del descritto “regime transitorio” che è invece certamente inapplicabile a altre condotte non riconducibili a quelle di cui all’art. 25 cit. tendenzialmente meno gravi, ma comunque valutabili sul piano della reputazione anche se anteriori all’entrata in vigore della normativa interna di recepimento».
47. Inoltre, secondo il T.a.r., il rinvio che l’art. 25 TUB dispone nei confronti del regolamento avrebbe ad oggetto solo la disposizione contenuta nell’articolo 1 (che elenca le condanne che determinano la perdita del requisito di onorabilità) e non anche quella contenuta nell’articolo 2 (che detta la disciplina transitoria, sancendo l’irrilevanza delle condanna anteriori rispetto alle partecipazioni già detenute).
Ciò in quanto l’art. 25 TUB autorizzerebbe il regolamento ministeriale solo ad individuare i requisiti di onorabilità ma non anche a dettare la relativa disciplina transitoria.
L’art. 2 del decreto ministeriale sarebbe, quindi, illegittimo, perché affetto da una sorta di “eccesso di delega” nell’esercizio della potestà normativa secondaria.
48. Le conclusioni cui è giunto il T.a.r. non possono essere condivise.
49. L’argomento secondo cui la direttiva comunitaria 2007/44/CE avrebbe tacitamente abrogato la disciplina transitoria di cui all’art. 2 del decreto ministeriale n. 144/1998 trova smentita nella considerazione che la direttiva comunitaria si applica esclusivamente alle partecipazioni non ancora acquisite, mentre la disciplina transitoria di cui all’art. 2 d.m. n. 144/1998 fa riferimento alle partecipazioni già detenute.
Le due discipline, in altri termini, hanno un campo di applicazione totalmente diverso: quella comunitaria fa riferimento all’acquisto della partecipazione, quella del regolamento fa riferimento alla partecipazione già acquisita e, dunque, attualmente detenuta.
La diversità del campo di applicazione esclude la possibilità di ipotizzare una abrogazione tacita della norma regolamentare per effetto della direttiva comunitaria, atteso che l’abrogazione tacita richiede come requisito indispensabile l’identità della fattispecie disciplinata dalla norme (abrogata e abrogante).
Soltanto l’identità della situazione regolata consente, infatti, di svolgere quel giudizio di incompatibilità tra le due discipline necessario ai fini di configurare l’abrogazione tacita (cfr., in questi termini, Cons. Stato, sez. VI, 16 novembre 2007, n, 5842; Cons. Stato, sez. IV, 24 aprile 2009, n. 2647; Cons. Stato, sez. V, 1° aprile 2009, n. 2077; Cons. Stato, sez. VI, 25 giugno 2008, n. 3228).
Non è allora sostenibile che una normativa diretta a disciplinare le partecipazioni non ancora acquistate possa determinare l’abrogazione tacita per incompatibilità di una disciplina che regola, invece, la diversa fattispecie relativa alle partecipazioni già detenute.
L’errore della sentenza appellata consiste, in altri termini, nell’avere ritenuto che la direttiva 2007/44/Ce si applichi anche alle partecipazioni già detenute.
Al contrario, il requisito reputazionale introdotto dalla direttiva è previsto rispetto al soggetto che deve acquistare partecipazioni o incrementi di partecipazioni, non anche nei confronti di chi già le detiene.
50. Sono numerosi gli argomenti che conducono a tale conclusione.
51. Innanzitutto, vengono in rilievo il titolo e i considerando della direttiva.
Il titolo è così rubricato: «Le regole procedurali e i criteri per la valutazione prudenziale di acquisizioni e incrementi di partecipazioni nel settore finanziario».
I considerando 2 e 4 fanno testuale riferimento al «progetto di acquisizione», il considerando 10 di nuovo al «progetto di acquisizione» e al «candidato acquirente».
Ancora, tutti gli articoli della direttiva fanno sempre riferimento al «candidato acquirente», cioè a colui che presenta all’Autorità di vigilanza un «progetto di acquisizione», e che intende, quindi, prevedere ad «acquisizione ed incrementi di partecipazione».
Inoltre, a dirimere ogni possibile dubbio interpretativo, vi è che la stessa Direttiva contiene una norma transitoria (art. 9, par. 2) così formulata: «La procedura di valutazione applicata ai progetti di acquisizione per i quali notifiche di cui all’articolo 1, punto 2, all’articolo 2, punto 2, all’articolo 3, punto 2, all’articolo 4, punto 2, e all’articolo 5, punto 2, siano state presentate alle autorità competenti prima dell’entrata in vigore delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative necessarie per conformarsi alla presente direttiva è effettuata conformemente alla legislazione nazionale degli Stati membri in vigore al momento della notifica».
In base a tale previsione, è la stessa Direttiva che esclude l’applicazione dei nuovi criteri di valutazione per i progetti di acquisizione notificati prima dell’entrata in vigore delle norme interne di recepimento della Direttiva, stabilendo chiaramente che per i progetti di acquisizione notificati prima la valutazione è effettuata conformemente alla legislazione nazionale degli Stati membri in vigore al momento della notifica.
Se la Direttiva, quindi, non si applica, per sua espressa previsione, ai progetti di acquisizione in itinere al momento dell’entrata in vigore delle norme nazionali di recepimento, a maggior ragione non potrà applicarsi alle acquisizioni già completamente perfezionate e, dunque, alle partecipazioni già detenute.
È vero, dunque, come afferma il T.a.r., che la Direttiva 2007/44/Ce introduce un requisito reputazionale non ancorato a predeterminate condanne, per la valutazione del quale assumono rilievo anche condotte poste in essere nel passato. Ma non è vero, e in questo si annida il vizio della sentenza appellata, che la nuova Direttiva estenda questo requisito reputazionale anche alle partecipazioni già detenute.
Non vi è, quindi, alcuna incompatibilità con l’art. 2 del d.m. n. 144 del 1988 che esclude che abbia rilevanza, rispetto alle partecipazioni già detenute, la perdita del requisito di onorabilità intervenuta anteriormente all’entrata in vigore della norma che lo prevede.
52. Va, peraltro, evidenziato che gli elementi significativi della fattispecie oggetto del presente giudizio si collocano tutti anteriormente alla data di entrata in vigore delle nuove norme che hanno esteso alla SPFM i requisiti di onorabilità. È anteriore, infatti, sia l’acquisto della partecipazione sia la perdita del requisito di onorabilità.
La tesi sostenuta dalla sentenza appellata, secondo cui la nuova disciplina troverebbe, comunque, applicazione, stante l’inoperatività della norma transitoria di cui all’art. 2 d.m. n. 144 del 1998, presuppone, quindi, la natura retroattività delle nuove disposizioni.
Al riguardo deve rilevarsi che la retroattività della legge, sebbene non costituzionalmente preclusa nelle materie diverse da quella penale, richiede, tuttavia, una esplicita previsione che renda chiara ed univoca la scelta del legislatore.
Il principio di irretroattività, invero, sebbene non costituzionalizzato fuori dalla materia penale:
– rappresenta un principio generale dell’ordinamento, come si desume dall’art. 11 della Preleggi che espressamente statuisce che la «legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo»;
– trova un suo fondamento ulteriore nei principi di tutela dell’affidamento e della certezza del diritto, la cui crescente importanza è confermata anche dalla giurisprudenza sovranazionale, tanto della Corte di giustizia quanto della Corte europea per la tutela dei diritti dell’uomo;
– assume un rilievo ancora maggiore laddove la legge in ipotesi retroattiva consente, come accade nel caso di specie, l’adozione di provvedimenti sostanzialmente ablatori, in grado di produrre nella sfera giuridica del privato effetti fortemente negativi, che incidono tanto sulla reputazione individuale (perché presuppongono l’assenza dei requisiti di onorabilità) quanto sulla libertà di iniziativa economica (perché precludono la titolarità di partecipazioni al capitale di determinate società); provvedimenti, quindi, in senso lato espropriativi, perché sottraggono al soggetto che ne è destinatario un prerogativa (la possibilità di essere titolari di rapporti di partecipazione societaria oltre una certa soglia) che attiene alla sua stessa capacità giuridica, dando luogo a una forma di incapacità speciale;
In questo contesto è evidente che la scelta nel senso della retroattività, sebbene non astrattamente preclusa al legislatore, deve, tuttavia, essere esplicita e univoca.
La retroattività della legge (specie quando la legge fonda il potere di adottare provvedimenti fortemente restrittivi della sfera giuridica del privato) rappresenta, infatti, un’ eccezione e, come tale, deve essere esplicita, dovendosi, in mancanza di una previsione univoca, optare per l’interpretazione che esclude la retroattività, in conformità ai richiamati principi generali dell’ordinamento giuridico.
53. Per le stesse ragioni non possono essere condivise le argomentazioni difensive sviluppate dalla Banca d’Italia secondo cui la possibilità di valutare il requisito reputazionale anche rispetto alla partecipazioni già detenute, sebbene non testualmente previsto dalla direttiva 2007/44, si desumerebbe, comunque, da una valutazione complessiva della normativa comunitaria – in particolare dalla c.d. direttive bancarie (ultima la n. 2013/36) – che prevederebbero la possibilità di porre termine – anche mediante ingiunzioni – ad assetti proprietari contrastanti con la sana e prudente gestione.
Il quadro normativo comunitario, quale emergente dalla direttive bancarie richiamate dalla Banca d’Italia (in particolare dall’art. 11, par. 5, della direttiva 89/646), consente di affermare che l’ordinamento dell’Unione Europea non esclude (e, quindi, consente) la possibilità di applicare il requisito reputazionale anche a partecipazioni già detenute.
Ma non è questo l’oggetto del contendere. Nel presente giudizio la questione controversa è se la scelta dell’ordinamento nazionale, quale desumibile dalla norma transitoria di cui all’art. 2 del d.m. n. 144/1998 (oggetto di rinvio da parte dell’art. 25 TUB a sua volta richiamato dall’art. 63 TUB), sia in contrasto con un obbligo comunitario che imponga la retroattività.
È questo, infatti, l’argomento sulla cui base il T.a.r. ha ritenuto tacitamente abrogato l’art. 2 del d.m. n. 144 del 1998, perché ritenuto in contrasto con una disciplina comunitaria che prescriverebbe la retroattività non lasciando sul punto libertà agli Stati membri.
Un conto, però, è sostenere che il diritto comunitario, prevedendo il potere di adottare anche ingiunzioni, consente di “colpire” anche gli assetti proprietari già esistenti, altro è ritenere che tale applicazione alle partecipazioni già detenute sia obbligatoria, con conseguente anticomunitarietà (e, quindi, disapplicazione) della disciplina nazionale che espressamente escluda le partecipazioni già detenute.
Che il diritto comunitario non preveda un obbligo di retroattività emerge, oltre che dal tenore letterale delle direttive citate (le quali fanno sempre riferimento alla possibilità – non all’obbligo – di incidere sugli assetti già esistenti), anche da un esame comparatistico, il quale, come emerso nel corso della discussione orale, evidenzia che nei vari Stati membri, in ordine a questo profilo, siano state compiute scelte diverse, alcuni escludendo, altri ammettendo l’applicazione dei nuovi requisiti alle partecipazioni già detenute.
La scelta dell’ordinamento italiano è nel senso dell’inapplicabilità e tale scelta si desume dalla disciplina transitoria di cui all’art. 2 d.m. n. 144/1998, che è norma comunitariamente compatibile, rappresentando esercizio legittimo di una facoltà consentita dall’ordinamento comunitario.
54. Non vale in senso contrario, richiamare l’art. 19 TUB (che è pure oggetto delle difese della Banca d’Italia) nella parte in cui tale norma preveda la possibilità anche di revocare le autorizzazioni già concesse in difetto dei requisiti reputazionali. La norma in esame si limita a prevedere un potere di revoca, che è peraltro immanente nello svolgimento dell’azione amministrativa in quanto espressione del generale potere di autotutela, ma non prevede affatto che la revoca possa avvenire anche in virtù di un applicazione retroattiva dei nuovi requisiti di onorabilità o reputazionali, rispetto a partecipazioni già detenute anteriormente all’entrata in vigore della legge e con riferimento a situazioni in cui pure la perdita del requisito è anteriore all’entrata in vigore della legge che lo prevede.
Del resto, nel caso di specie, il provvedimento adottato non è la revoca di un’autorizzazione già concessa, ma l’obbligo di alienazione di partecipazioni già detenute.
55. Non risulta condivisibile neanche l’argomento, pure contenuto nella sentenza appellata, secondo cui il rinvio che l’art. 25 TUB (a sua volta richiamato dall’art. 63 TUB per quanto attiene alla SPFM) abbia ad oggetto soltanto l’articolo 1 del d.m. n. 144/1998 (che elenca le condanne che determinano la perdita del requisito di onorabilità) e non anche l’articolo 2 (che detta la disciplina transitoria). L’argomento cioè secondo cui l’art. 2 del d.m. n. 144/1998, nel sancire il principio di irretroattività (nel senso di escludere la rilevanza rispetto alle partecipazioni già detenute della perdita del requisito già verificatasi alla data di entrata in vigore della legge), sarebbe nella sostanza illegittimo, perché adottato oltre la delega attribuita al potere regolamentare dalla fonte primaria.
56. L’argomento non ha pregio alla luce delle seguenti considerazioni.
L’art. 25, comma 2, TUB espressamente prevede che il regolamento debba individuare i requisiti di onorabilità che devono essere posseduti dai titolari delle partecipazioni “rilevanti”
Non si può ritenere che il potere (delegato al regolamento) di individuare i requisiti di onorabilità comprenda solo l’elencazione dei requisiti (o meglio delle cause che determinano la perdita del requisito), e non anche la disciplina del requisito sotto il profilo temporale, ovvero del momento a partire dal quale (e delle partecipazioni rispetto alle quali) la perdita del requisito assume rilevanza.
Il profilo temporale ha una valenza sostanziale perché concorre a delineare il requisito richiesto e il suo ambito di rilevanza.
Peraltro, considerato che il principio di irretroattività rappresenta un principio generale dell’ordinamento, che come tale vincola certamente la fonte secondaria, il regolamento ministeriale, in assenza di una chiara deroga legislativa al principio di irretroattività, non avrebbe potuto che disporre nel senso della irretroattività, essendo certamente illegittimo il regolamento retroattivo.
Quindi, atteso che la fonte primaria non contiene alcuna esplicita deroga al principio di irretroattività, la disciplina contenuta nell’articolo 2 del d.m. n. 144 del 1998 non solo non è illegittima, ma, anzi, rappresenta, dato il quadro normativo primario, una scelta per così dire obbligata.
Sotto tale profilo è significativo evidenziare che in tale direzione si era già espresso il Consiglio idi Stato, Sezione Consultiva per gli Atti Normativi, nel parere reso il 23 febbraio 1998, nel corso dell’iter di approvazione del d.m. n. 144/1998, avallando la disciplina transitoria di cui all’art. 2 proprio in nome del principio di irretroattività delle norme che hanno introdotto nuove cause di perdita del requisito dell’onorabilità.
56. Alla luce delle considerazioni che precedono risultano, quindi, fondati i motivi di appello (primo, secondo e terzo) formulati nell’ambito del c.d. primo blocco di motivi dell’appello principale.
57. Sono, pertanto, assorbiti i motivi del secondo e del terzo blocco proposti in via subordinata.
58. Per effetto della fondatezza del primo blocco di motivi dell’appello principale diventa anche improcedibile, per sopravvenuta carenza di interesse, l’appello adesivo autonomo proposto da Holding Italiana Quarta diretto a contestare solo la illegittimità costituzionale delle norme che impongono l’alienazione.
59. La fondatezza dei motivi dell’appello principale impone l’esame dell’appello incidentale condizionato proposto dalla Banca d’Italia.
L’appello incidentale della Banca d’Italia è diretto a sostenere che Silvio Berlusconi e la società Holding Italiana Quarta, in qualità di meri soci della società Fininvest destinataria diretta dell’ordine di alienazione, sarebbero privi di legittimazione e di interesse al ricorso.
Si richiama a sostengo il pacifico orientamento giurisprudenziale secondo cui il socio di una società di capitali non è legittimato ad agire in giudizio per far valere situazioni giuridiche di cui è titolare la società. Nel caso di specie, quindi, i soci (Berlusconi e HIQ) non sarebbero legittimati a contestare un provvedimento diretto esclusivamente nei confronti della società Fininvest.
59. L’appello incidentale condizionato proposto dalla Banca d’Italia non merita accoglimento
60. Occorre, anzitutto, distinguere le posizioni di Silvio Berlusconi (ricorrente principale nel giudizio di primo grado) e della società Holding Italiana Quarta.
Quest’ultima in primo grado ha svolto un intervento adesivo autonomo, che il T.a.r. ha però dichiarato inammissibile e riqualificato in termini di intervento adesivo dipendente, anche in considerazione del fatto che i motivi sviluppati dalla Holding si sostanziano in tre questioni di legittimità costituzionale delle norme applicate dalla Banca d’Italia, questioni che, oltre ad essere rilevabili d’ufficio, sono state tutte fatte proprie in termini pressoché sovrapponibile ed articolate dallo stesso ricorrente mediante il primo atto per motivi aggiunti nel ricorso di primo grado (e riproposte in appello).
Va ancora evidenziato che, in conseguenza della fondatezza dei primi tre motivi dell’appello principale, tali questioni devono ormai ritenersi assorbite, il che implica, come si è già rilevato, l’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse anche dell’appello adesivo autonomo proposto da Holding Italiana Quarta.
Di conseguenza risulta venuto meno anche l’interesse della Banca d’Italia a contestare la partecipazione al giudizio di Holding Italiana Quarta, dato che questa si limita a sollevare questioni di costituzionalità rilevabili d’ufficio e peraltro ormai assorbite.
61. In ogni caso, sulla posizione di Holding Italiana Quarta le conclusioni cui giunge il T.a.r sono condivisibili e non meritano riforma, atteso che il mero socio, se non può autonomamente impugnare (o proporre intervento adesivo autonomo) può, tuttavia, partecipare al giudizio nella veste di intervento adesivo dipendente, essendo comunque titolare, seppure in via riflessa, derivata e indiretta, di un interesse non di mero fatto all’annullamento del provvedimento lesivo degli interessi della società di cui è socio.
Peraltro, anche nel giudizio di appello, Holding Italiana Quarta, rinunciando ad impugnare il capo della sentenza che dichiara in ammissibile il suo intervento adesivo autonomo, si è limitata (proponendo un “appello incidentale adesivo”) a partecipare in qualità di mero interventore adesivo dipendente, senza articolare autonome censure.
62. Differente è invece la posizione di Silvio Berlusconi, ricorrente principale nel giudizio di primo grado.
Silvio Berlusconi, rispetto al provvedimento impugnato, non viene in rilievo come mero socio della società direttamente colpita dall’atto amministrativo che impone l’obbligo di alienazione. Anzi, sotto tale profilo, occorre evidenziare che formalmente Silvio Berlusconi non sia socio della Finisvest, ma controlla una serie di società (Holding Italiana Prima, Seconda, Terza e ottava) che, a loro volta, detengono la maggioranza di Fininvest.
63. Il carattere differenziato e giuridicamente rilevante, rispetto al provvedimento impugnato, dell’interesse di cui Silvio Berlusconi è titolare emerge alla luce di diverse considerazioni.
64. In primo luogo, si tratta del soggetto rispetto al quale la Banca d’Italia ha riscontrato la perdita dei requisiti di onorabilità, perdita sulla quale si fonda il provvedimento impugnato. Sotto questo profilo, quindi, il provvedimento già gli arreca una lesione diretta (non meramente riflessa) perché mette in discussione il possesso dei necessari requisiti di moralità. Già questo vale a radicare il suo interesse al ricorso, interesse che, come pacificamente riconosce la giurisprudenza, può anche assumere il contorno di un interesse “morale”, riferito in questo caso alla difesa della propria sfera reputazionale.
Sotto questo profilo non è condivisibile quanto sostenuto dalla Banca d’Italia secondo cui il suo interesse sarebbe circoscritto all’accertamento del suo requisito reputazionale, ma non anche alla caducazione dell’ordine di alienazione, con la conseguenza che sarebbe legittimato a contestare il provvedimento impugnato solo nella parte in cui accerta che non ha il requisito reputazionale ma non nella parte in cui dispone l’alienazione delle azioni. I due aspetti (mancanza del requisito e obbligo di alienazione) risultano inscindibilmente collegati fra loro, rappresentando il primo il presupposto motivazionale e giuridico del secondo. Se viene meno l’addebito sotto il profilo reputazionale non può autonomamente sopravvivere l’ordine di alienazione.
65. In secondo luogo, a differenziare la posizione di Silvio Berlusconi vale l’ulteriore considerazione che egli, detenendo la maggioranza delle azioni delle società che controllano la Finisvest, esercita, attraverso le azioni che Fininvest detiene in Mediolanum, anche un ruolo di controllo (indiretto) nei confronti di quest’ultima società.
Il provvedimento impugnato, quindi, imponendo l’alienazione delle azioni di Mediolanum detenute da Fininvest incide sulla posizione di controllo, che, risalendo la catena societaria, Silvio Berlusconi esercita in Mediolanum. Vi è, quindi, in capo al ricorrente principale l’interesse, differenziato e normativamente qualificato, a non perdere il controllo di Mediolanum e, sulla base di questo interesse, egli è legittimato non solo a un’azione di mero accertamento dell’illegittimità del provvedimento impugnato nella parte in cui esclude il requisito reputazionale, ma anche ad un’azione di annullamento dell’ordine di alienazione.
In altri termini, il ricorrente principale non fa valere una posizione riflessa come mero socio, ma valere una propria situazione giuridica soggettiva la cui rilevanza giuridica si desume, fra l’altro, dagli articoli 22 e 25 del TUB: l’interesse a poter detenere, per il tramite di una società controllata, una partecipazione qualificata in Mediolanum.
66. Tale conclusione trova sicura conferma, come si accennava, negli artt. 22 e 25 del TUB:
L’art. 22 TUB dispone espressamente che «ai fini dell’applicazione dei capi III e IV del presente titolo, si considerano anche le partecipazioni acquisite o comunque possedute per il tramite di socieàt controllate, di società fiduciarie o per interposta persona».
E l’art. 25 TUB (cioè la norma applicata dal provvedimento impugnato) riferisce l’obbligo di alienazione alle partecipazioni dei soggetti privi dei requisiti di onorabilità.
Quindi, al di là delle apparenze, il destinatario sostanziale del provvedimento impugnato è, ancor prima che Fininvest, Silvio Berlusconi, ossia il soggetto che, per usare la stessa espressione dell’art. 22 TUB, “possiede”, per il tramite di società controllata, la partecipazione in Mediolanum ed è il soggetto privo, ai sensi dell’art. 25 TUB, secondo la prospettazione su cui si basa il provvedimento impugnato, dei requisiti di onorabilità.
Non è dunque Fininvest il soggetto cui il TUB vieta di detenere la partecipazione, ma proprio Silvio Berlusconi. Fininvest è solo il destinatario formale dell’obbligo di alienazione, in quanto rappresenta lo strumento societario attraverso il quale Silvio Berlusconi detiene la partecipazione qualificata in Mediolanum.
67. L’appello incidentale della Banca d’Italia deve, quindi, essere respinto.
68. Alla luce delle considerazioni sin ora svolte, la sentenza appellata deve, pertanto, in accoglimento dell’appello principale, essere riformata e, per l’effetto, merita accoglimento il ricorso di primo grado con conseguente annullamento dei provvedimenti amministrativi impugnati.
69. La particolare complessità e la controvertibilità delle questioni esaminate, alla luce della stratificazione normativa e dell’interferenza tra direttive comunitarie e legislazione nazionale, impongono l’ integrale compensazione delle spese del doppio grado di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto:
– accoglie l’appello principale proposto da Silvio Berlusconi e l’appello incidentale proposto da Fininvest s.p.a. ;
– respinge l’appello incidentale condizionato proposto dalla Banca d’Italia;
– dichiara improcedibile l’appello adesivo autonomo proposto da Holding Italiana Quarta s.p.a.
– per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, annulla i provvedimenti amministrativi impugnati in primo grado.
Compensa le spese del doppio grado di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 14 gennaio 2016 con l’intervento dei magistrati:
Francesco Caringella, Presidente
Roberto Giovagnoli, Consigliere, Estensore
Bernhard Lageder, Consigliere
Marco Buricelli, Consigliere
Francesco Mele, Consigliere
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Studio Legale Avvocato Francesco Noto – Cosenza