Nell’ambito di un rapporto di lavoro a tempo determinato, il lavoratore deve essere informato circa i motivi del recesso, mediante apposito preavviso, al pari del contratto lavorativo a tempo indeterminato.
Il Tribunale di Giustizia dell’Unione Europea scardina quello che sino ad oggi è risultato un distinguo granitico tra il rapporto di lavoro indeterminato e quello a termine, incardinato quest’ultimo sul mero decorso temporale, spirato il quale lo stesso la prestazione deve intendersi automaticamente cessata (salvo, come notorio, la possibilità di recesso anticipato ex art. 2119 cc per giusta causa da parte di entrambi i contraenti).
Investita del rinvio pregiudiziale da parte di un giudice polacco, la Corte ritiene contrario al diritto dell’Unione la legislazione del paese membro che non imponga al datore di lavoro, pur a fronte di un contratto a tempo determinato, di motivare le ragioni del recesso, così come avviene per i lavoratori a tempo indeterminato. Questo perché, in detta evenienza, il prestatore di lavoro è privato di una informativa importante quanto alle ragioni che hanno indotto il datore ad interrompere il rapporto in essere, valutando così la opportunità di avviare un contenzioso dinanzi al Tribunale competente.
In sostanza, il distinguo sul piano cognitivo tra recesso del contratto di lavoro a tempo determinato e quello senza apposizione di un termine si palesa contrario ai principi dell’Unione.
Per giungere a siffatta conclusione la sentenza del Tribunale Europeo si diparte dall’Accordo Quadro, approvato con la direttiva UE 1999/70, e dal relativo preambolo, il cui comma terzo così recita:
«Il presente accordo stabilisce i principi generali e i requisiti minimi relativi al lavoro a tempo determinato, riconoscendo che la loro applicazione dettagliata deve tener conto delle realtà specifiche delle situazioni nazionali, settoriali e stagionali. Esso indica la volontà delle parti sociali di stabilire un quadro generale che garantisca la parità di trattamento ai lavoratori a tempo determinato, proteggendoli dalle discriminazioni, e un uso dei contratti di lavoro a tempo determinato accettabile sia per i datori di lavoro sia per i lavoratori».
Ai sensi della clausola 1 dell’accordo quadro, l’obiettivo di quest’ultimo è, da un lato, migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo il rispetto del principio di non discriminazione e, dall’altro, creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato.
La Corte valorizza ancora di più la clausola 4 del punto 1, titolato “principio di non discriminazione”, a tenore del quale, “Per quanto riguarda le condizioni di impiego, i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive”.
Quali le conseguenze della sentenza?
Le conclusioni sul piano astratto sono alquanto dirompenti (ogni lavoratore potrebbe impugnare il recesso del datore, anche solo lamentando il deficit informativo, con agevole risultato dinanzi al Giudice del Lavoro). Tuttavia, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ne circoscrive l’ambito applicativo, stabilendo innanzitutto che non sussiste un obbligo generalizzato per il giudice nazionale di disapplicare la normativa interna, solo perché contraria all’accordo quadro, e ciò perché non applicabile direttamente alle controversie tra privati.
Tuttavia, la divergenza di trattamento tra informativa nel rapporto di lavoro a tempo determinato e contratto indeterminato lede i principi generali dell’Unione, e pertanto il Giudice nazionale dovrà disapplicare la legislazione interna, qualora non sarà possibile applicare quest’ultima in termini conformi alla legge dell’Unione Europea (Unione Europea, causa C715/20, sentenza 20 Febbraio 2024).
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