In ipotesi di decesso per annegamento avvenuto in una piscina, va affermata la penale responsabilità del gestore, anche laddove l’impianto non sia funzionante in costanza di evento. Questa la lettura dell’Alto Consesso di Legittimità, secondo cui si è in presenza di struttura che è fonte di pericolo, ben potendo verificarsi cadute accidentali o ingressi non non previsti da parte di improvvisati fruitori. Se è lapalissiano l’obbligo in vigilando laddove la struttura sia attiva, grava del pari sul gestore un obbligo di sicurezza nella opposta ipotesi di non funzionamento, consistente nella adozione di concrete misure atte ad inibire l’accesso alla vasca, che palesino il divieto di esercizio. La assenza di qualsivoglia cautela volta alla sicurezza, e comunque ad impedire la fruizione non autorizzata dell’impianto, pertanto, non rende l’evento immune da responsabilità penale (Corte di Cassazione, Sez. IVª Penale, Sentenza 24 Aprile 2013, N° 18569).
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. IVª PENALE , SENTENZA 24 aprile 2013 18569.
Motivi della decisione
Il Tribunale di Lanciano ha assolto gli imputati in epigrafe dal reato di omicidio colposo in danno di A..D.M. perché il fatto non sussiste.
La sentenza è stata riformata dalla Corte d’appello di L’Aquila che ha affermato la responsabilità degli stessi imputati e li ha altresì condannati al risarcimento del danno nei confronti delle parti civili.
Il fatto è accaduto nel corso di una festa notturna di compleanno cui partecipavano diversi giovani, alcuni dei quali minori. L’evento si svolgeva all’aperto, nell’albergo (omissis) . Alcuni giovani si sono bagnati nella piscina; ed uno di essi ha perso la vita per annegamento. L’esame autoptico ha rivelato l’assunzione di farmaci antidepressivi ed alcol in limitata quantità.
Secondo quanto ritenuto dal giudice di merito la festa si svolgeva nei pressi di una piscina dell’albergo; sul posto non era presente personale addetto alla sorveglianza ed al salvataggio dei bagnanti. La circostanza non era stata segnalata e non erano neppure presenti cartelli che vietassero l’uso della struttura. Non vi erano altresì transenne, catene o altro. I giovani presenti non si sono subito accorti dell’accaduto, poiché l’acqua non era illuminata: l’illuminazione riguardava solo i bordi della piscina.
In conseguenza è stato ritenuto addebito colposo nei confronti di F..C. nella veste di legale rappresentante dell’azienda che gestiva l’albergo e nei confronti di R..O. , legale rappresentante dell’azienda che gestiva la ristorazione in occasione della festa di cui si discute.
Il Tribunale, nell’adottare pronunzia assolutoria, ha ritenuto che il gestore della piscina fosse titolare di posizione di garanzia quanto alla sicurezza della struttura, ma solo nel corso del suo regolare esercizio. Nella fattispecie, le condizioni del luogo rendevano palese che la piscina non era in condizione di fruibilità, come dimostrato dalla fioca illuminazione che consentiva solo la visione dei bordi della vasca. Non essendo la piscina fruibile, non occorreva predisporre servizi di vigilanza e salvataggio. La vittima, maggiorenne e capace aveva liberamente assunto la scelta di un bagno pericoloso.
Tale valutazione è stata confutata dalla Corte d’appello. La vittima era ancora minorenne come molti dei giovani che partecipavano alla festa. L’accesso alla piscina non era chiuso. La vasca era illuminata nel suo perimetro. Non vi erano cartelli di divieto né ostacoli fisici all’accesso all’acqua. Inoltre la festa avveniva proprio ai bordi della piscina, il che conferma che l’impianto era fruibile e tale appariva agli occhi degli ospiti.
L’uso della piscina è avvenuto sotto gli occhi dei camerieri del servizio di ristorazione e dello stesso O. gestore dell’azienda che curava il catering: nessuno di costoro è intervenuto per dissuadere i giovani dal bagnarsi. Lo stesso O. aveva definito con il fratello della festeggiata le modalità dell’evento raccomandando di non fare tanti danni alla piscina e di evitare di fare il bagno. Ciò significava che l’impianto era fruibile e che gli imputati avevano consapevolezza del pericolo. Il proprietario della struttura alberghiera ed il gestore del servizio di ristorazione, titolari di posizione di garanzia per i rischi derivanti dall’uso non corretto dei servizi offerti, avevano l’obbligo di predisporre servizi di assistenza e salvataggio che avrebbero scongiurato l’evento. Ciò evidenzia con elevata probabilità logica il nesso causale.
2. Ricorrono per cassazione gli imputati.
2.1 C. deduce tre motivi.
2.1.1 Con il primo motivo si prospetta vizio della motivazione. Erroneamente si è ritenuto che la piscina fosse fruibile. Si è argomentato dal fatto che la struttura non fosse chiusa, ma la chiusura non poteva aver luogo posto che essa non aveva un accesso munito di porta o cancello. Pure priva di rilievo in tal senso é l’assenza di cartelli di divieto e simili. È illogico pensare che il gestore di una piscina debba assicurare in ogni tempo il servizio di vigilanza. E nessuno dei presenti era autorizzato a pensare che la piscina fosse in funzione, visto che il fondo non era illuminato e che le pompe di circolazione dell’acqua non erano attive. L’assenza di illuminazione rende illogica l’affermazione che la piscina fosse aperta al pubblico. Tale affermazione, inoltre, non confuta persuasivamente il contrario assunto del primo giudice.
2.1.2 Oggetto di censura logica è l’affermazione che tra i servizi offerti vi fosse l’uso della piscina. Diversi testi hanno escluso tale circostanza. Altrettanto illogicamente si da per scontato che tutte le cene nei pressi di una piscina implichino il rischio che i presenti si bagnino. In ogni caso, nessun addebito può essere mosso al ricorrente che non era presente: egli non avrebbe potuto intervenire per impedire i bagni visto che non era al corrente dell’uso non consentito. La sua legittima ignoranza esclude la posizione di garanzia.
2.1.3 L’ultima censura riguarda il nesso causale. Neppure la presenza di un bagnino avrebbe potuto evitare l’evento, visto che la vasca era al buio e nessuno avrebbe potuto accorgersi del malore che aveva colto il giovane. Inoltre la decisione di tuffarsi fu frutto di una libera iniziativa della vittima.
2.2 O. deduce violazione di legge e vizio della motivazione.
Si assume che la sentenza d’appello reca due errori di fondo. Il primo giudice ha ritenuto che l’evento sia frutto di una libera determinazione della vittima, alludendo non alla maggiore età, visto che era indubbiamente minorenne, ma al fatto che egli aveva
una adeguata capacità di discernimento. Inoltre O. non era per nulla presente al momento dei fatti come chiarito dalla prima sentenza sulla base delle concordi dichiarazioni di diversi testi.
D’altra parte, la Corte d’appello non ha in alcun modo di dimostrato l’esistenza di una posizione di garanzia, né ha confutato al riguardo la prima sentenza.
La Corte ha travisato la prova quando ha affermato che O. era presente; ed ha pure trascurato che egli era gestore della ristorazione. La gestione di un catering non implica la gestione dei rischi derivanti da forze naturali o da eventi di terzi. Egli gestiva i rischi afferenti al catering ma non quelli afferenti alla sicurezza degli impianti, né era destinatario di alcuna delega.
3. Il ricorso di C. è privo di pregio. È invece fondato quello di O…
3.1 Quanto alla posizione di C. , gestore dell’albergo e della piscina, non vi è dubbio in ordine all’esistenza di rimproverabile condotta colposa. Le sentenze di merito, come si è sopra esposto, sono discordi sullo stato della piscina e sulla sua concreta fruibilità. La sentenza d’appello non è persuasiva nella confutazione della ricostruzione proposta dal Tribunale: l’assenza di illuminazione, l’ora notturna, il contesto del festeggiamento, l’estemporaneità della decisione dei giovani di tuffarsi al termine della cena corroborano la tesi che, in realtà, la piscina non fosse in esercizio. Tale incertezza nella ricostruzione del fatto non vulnera radicalmente il giudizio di responsabilità, alla stregua dei chiarimenti e delle integrazioni che seguono.
Il fatto decisivo è che, con tutta evidenza, la piscina costituisce una struttura pericolosa, sia quando è in esercizio, sia quando non lo è. Si tratta di rischi diversi che vanno diversamente cautelati. Nel corso dell’esercizio va assicurata, come ritenuto dai giudici di merito, la presenza di personale di salvataggio che sorvegli le attività ginniche o ricreative che vi si svolgono. Quando la struttura non è operativa, la vasca costituisce pur sempre un’entità costituente fonte di pericolo, derivante soprattutto dalla presenza di acqua, in relazione alla possibilità di caduta accidentale e di incongrue iniziative da parte degli utenti della struttura. Pure tale rischio deve essere cautelato in modo appropriato, in rapporto alla concreta conformazione dei luoghi. In linea generale ed astratta, ferma la facoltà di scelta del garante in ordine alla selezione dello strumento adeguato alla efficiente gestione del rischio, appare ragionevole che l’esercente della struttura delimiti l’area con transenne, barriere o apparati equivalenti che inibiscano l’acceso alla vasca e rendano chiaro, esplicitamente o implicitamente, che la struttura non è in esercizio e ne vietino, quindi, l’uso.
Tale ordine di idee si rinviene nella condivisa giurisprudenza di questa Suprema Corte. Si è infatti ritenuto che il legale rappresentante della società che gestisce un complesso turistico in cui è presente una piscina è titolare di una posizione di garanzia in ordine all’incolumità degli utilizzatori della struttura e pertanto risponde del reato di omicidio colposo nel caso di annegamento di un minore a causa della insufficiente manutenzione dell’impianto e della mancata predisposizione di un presidio di salvataggio continuativo durante il funzionamento dello stesso (Cass. IV, 1 luglio 2008, n. 45006, Del Coco, Rv. 241998).
Con riguardo, invece, alla situazione in cui la piscina non sia in esercizio si è enunciato il principio che integra il reato di omicidio colposo la condotta del direttore di un albergo che non inibisca materialmente ai clienti l’accesso alla piscina negli orari in cui non è garantito il servizio di salvataggio, ma si limiti ad esporre il regolamento di utilizzo della medesima contenente un divieto in tal senso, qualora degli ospiti vi anneghino facendo il bagno nell’orario non consentito. In motivazione si è precisato l’avventato comportamento dei clienti doveva ritenersi prevedibile dal direttore dell’albergo, che dunque non poteva ritenere assolto l’obbligo connesso alla sua posizione di garanzia attraverso l’affidamento nella scrupolosa osservanza del regolamento della piscina da parte dei medesimi (Cass., IV, 22 ottobre 2010, n. 45698, Fonnesu, Rv. 241759).
Non è dissonante con tali enunciazioni altra pronunzia evocata dal ricorrente in cui è stata annullata senza rinvio la sentenza di merito che aveva affermato la responsabilità per omicidio colposo del gestore di un ristorante con annessa piscina. In motivazione si è argomentato che l’imputato era sicuramente titolare di una posizione di garanzia in forza della quale era tenuto ad assicurare l’incolumità fisica degli utenti mediante l’idonea organizzazione dell’attività sportiva e l’incolumità comunque dei clienti del ristorante nel periodo di non funzionamento dell’impianto. Nel caso di specie, si è soggiunto, è risultato che l’impianto stesso, al momento dell’occorso, chiaramente non era in funzione mancando l’illuminazione serale, esso era contornato da barriere metalliche per evitare eventuali cadute accidentali in acqua; e d’altro canto, si è infine considerato, risulta con certezza che la vittima non è caduta accidentalmente nella piscina, ma si è gettata in essa volontariamente pur non sapendo nuotare, malgrado il divieto espresso, rimarcato dal transennamento della vasca (Cass. IV, 30 aprile 2009, Sansone, Rv. 244229).
Da tale condiviso indirizzo della giurisprudenza appare dunque confermato che, come sopra esposto, pur quando la piscina non sia in esercizio, il garante della sicurezza della struttura fonte di possibili rischi non può fare a meno di adottare misure (barriere, transenne ecc.) che, pur implicando una qualche misura di affidamento sull’osservanza delle prescrizioni, inibiscano l’accesso alla vasca e rendano altresì chiaro, tangibile il divieto di utilizzo della vasca. Nel caso di specie, come si è esposto, tali ostacoli fisici erano del tutto assenti. Dunque, conclusivamente, attesa l’assenza di qualsiasi predisposizione volta alla sicurezza, la responsabilità si configura pure ritenendo, come ravvisato dal primo giudice e dal ricorrente, che la vasca non fosse disponibile per l’utilizzazione da parte dei clienti.
D’altra parte, essendo pacificamente il C. gestore della struttura su di lui gravava certamente il ruolo di garante e dunque l’obbligo, colposamente omesso, di adottare le predisposizioni di cui si è detto. Né vi è ragione di dubitare che una fisica predisposizione dell’inibizione all’accesso avrebbe costituito un ostacolo efficace nell’impedire ai giovani di tuffarsi.
Va dunque confermata la pronunzia di merito recante l’affermazione di responsabilità. Segue per legge la condanna al pagamento delle spese processuali; nonché alla rifusione delle spese delle parti civili che appare congruo liquidare come in dispositivo.
4. Discorso diverso va fatto per l’O. . Nei suoi confronti nessuna delle pronunzie di merito affronta in modo compiuto il cruciale problema dell’individuazione di un obbligo giuridico che fondasse l’obbligo di cooperare attivamente alla sicurezza della piscina. Le coordinate fattuali sono quanto mai incerte e non valgono a chiarire se egli fosse coinvolto, insieme al C. nella gestione della struttura o avesse comunque assunto il formale obbligo di garantire nel corso della festa la sicurezza dei luoghi. L’imputato, infatti, per quanto è dato di intendere, era interessato solo alla predisposizione della ristorazione con servizio di catering; e l’esistenza dell’obbligo giuridico di cui si discute non è stato accertato con la doverosa certezza. La pronunzia va quindi annullata con rinvio. Due sono le direttrici lungo le quali dovrà svilupparsi la nuova indagine di merito. Da un lato, come si è accennato, andrà appurato, eventualmente anche tramite nuovi e più approfonditi accertamenti in fatto, quale fosse il ruolo del ricorrente nella gestione della struttura; se cioè egli fosse solo precariamente presente nel complesso o se, invece, vi rivestisse un ruolo attivo di compartecipazione nell’organizzazione del funzionamento, insieme al coimputato. Andrà pure verificato se, in alternativa, come si è accennato, l’O. si fosse inequivocamente impegnato a governare attivamente la sicurezza assumendo un definito obbligo giuridico in tal senso. Tali valutazioni in fatto dovranno essere orientate dai principi che regolano la materia dell’obbligo di impedire l’evento nei reati commissivi mediante omissione. Va a tale riguardo chiarito che il fatto di non essere intervenuto (ammesso che fosse certamente presente al momento del fatto), da solo, non vale a fondare l’obbligo di agire da parte dell’O. . Si vuoi dire che l’obbligo giuridico non può essere sostituito da una generica, opinata doverosità desunta da prospettazioni di valore generate dal punto di vista dell’interprete.
La questione ha delicate implicazioni di principio che vanno chiarite. L’art. 40 capoverso cod. pen. introduce nell’ordinamento fattispecie che nascono da una clausola generale che estende l’applicazione delle disposizioni penali che puniscono la causazione di un evento per effetto di una condotta attiva, trasformandole: l’imputazione dell’evento avviene a seguito di una condotta omissiva, costituita dal mancato compimento di un’azione, in violazione di un obbligo giuridico.
Al di là dei problemi definitori, tale figura di reato, a causa soprattutto dell’assenza di un’azione, di un atto naturalistico, genera numerosi, difficili problemi. Le discussioni riguardano da un lato il profilo politico-criminale e dall’altro innumerevoli problematiche di carattere dogmatico ed applicativo.
Il tema politico-criminale si muove storicamente entro due estremi. Da un lato lo Stato liberale, fondato essenzialmente su divieti di condotte costituenti indebite violazioni dell’altrui sfera di libertà, e sostanzialmente indifferente rispetto ai comportamenti di inerzia. Dall’altro lo Stato autoritario, che si esprime anche in comandi finalizzati ad orientare positivamente il comportamento dei cittadini in vista del perseguimento di interessi superiori, ed accresce enormemente la sfera dei reati omissivi. Nel mezzo, per così dire, lo Stato sociale, solidaristico, che impone obblighi determinati, appunto, dal perseguimento di finalità di solidarietà, sostegno e coesione sociale. In aggiunta, l’accrescimento dei rischi determinato dall’industria e dalla tecnologia ha, d’altra parte, determinato nuovi obblighi di gestione delle situazioni rischiose, rafforzati dalla punizione dell’omissione. Questa situazione genera ancora oggi delicati interrogativi, visto che un diritto fondato su comandi rischia, oltre certi limiti, di trasformarsi da strumento di tutela di beni giuridici a strumento di governo della società, con i connessi pericoli di strumentalizzazioni politiche e di violazione del principio di eccezionalità dei reati omissivi. Si tratta di trovare un difficile equilibrio tra l’eccezionalità dei reati omissivi, stante la loro maggiore interferenza nella sfera di libertà individuale rispetto ai reati commissivi; ed il principio di solidarietà che impone agli individui di tenere comportamenti attivi per il soddisfacimento di altrui esigenze solidaristiche.
Le problematiche cui si è fatto cenno emergono quando si tenta di definire con qualche precisione gli obblighi giuridici genericamente evocati dall’art. 40 capoverso, che generano la cosiddetta posizione di garanzia: espressione invalsa, appunto, per esprimere in modo condensato l’obbligo giuridico d’impedire l’evento che fonda la responsabilità penale nei reati di cui ci si occupa. Qui la congerie delle tesi è storicamente risalente ed amplissima. In breve, la teoria formale, tradizionale nella dottrina italiana, esprime il punto di vista del liberalismo giuridico classico, che concepisce l’ordinamento penale come un sistema fondato precipuamente su divieti: poiché l’imputazione causale per omissione di una condotta doverosa costituisce un’eccezione, è necessario che l’obbligo giuridico di agire trovi fondamento in una fonte giuridica formale. Il legislatore non si accontenta di una mera possibilità di fatto di intervenire, ma esige che la possibilità d’intervento sia consacrata in un preciso obbligo giuridico la cui fonte mediata è sempre una legge. La fonte immediata può essere diversa: una legge o un qualsiasi fatto o atto giuridico, che trovi nella legge il suo fondamento. Viene quindi escluso che possano configurarsi comportamenti di fatto da cui nascerebbero obblighi giuridici, senza mediazione della legge o di altra fonte espressamente riconosciuta dalla legge con l’efficacia di produrre obblighi giuridici.
Le riconosciute insufficienze della teoria hanno incoraggiato lo sviluppo di una differente elaborazione che non fa più leva tanto su profili formali, quanto piuttosto sulla funzione dell’imputazione per omissione, connessa all’esigenza di natura solidaristica di tutela di beni giuridici attraverso l’individuazione di un soggetto gravato del ruolo di garante della loro protezione. Tale individuazione del garante avviene più che sulla base di criteri formali, alla stregua della posizione di fatto assunta, del ruolo svolto. Si tratta di elaborazione che presenta il pregio ampiamente riconosciuto di aderire allo specifico punto di vista dell’ordinamento penale, selezionando in senso restrittivo il dovere di agire nell’ambito della sterminata congerie di obblighi presenti nell’ordinamento. Tuttavia, proprio l’abbandono di un criterio formale ha messo in luce una inevitabile vaghezza delle diverse costruzioni, che presentano criteri d’individuazione degli obblighi di garanzia assai differenziati. Tale costruzione ha così posto in luce un rapporto di tensione con i principi di legalità e di tassatività a causa dell’inidoneità a circoscrivere l’imputazione per omissione entro confini sufficientemente precisi. Hanno quindi preso corpo concezioni miste, eclettiche, che in vario modo tentano di conseguire una sintesi, una reciproca integrazione tra la teoria formale e quella contenutistica. Tuttavia neppure tale sincretismo ha conseguito risultati completamente appaganti. Di fatto, l’individuazione della posizione di garanzia costituisce problema cruciale di molti processi afferenti a reati colposi, come testimoniato dalla giurisprudenza di questa Suprema Corte.
Il tema è stato affrontato con ampiezza in una pronunzia (Sez. IV. n. 25527 del 22 maggio 2007, Conzatti, Rv. 236852) che va qui succintamente richiamata, poiché sintetizza le generali questioni sul tappeto. Si discuteva, tra l’altro, dell’esistenza di posizione di garanzia in capo ad una persona che, di notte, si era offerta di accompagnare a valle, lungo una pista, alcuni escursionisti a bordo di slittini. La sentenza, pur dando atto delle molteplici teorie in tema di fonte della posizione di garanzia, ha prestato adesione all’indirizzo prevalente nel pensiero giuridico italiano, che tende verso un atteggiamento per così dire eclettico, in vario modo conciliando ed integrando i due opposti punti di vista. In particolare, sebbene si riconosca la centralità della posizione di garanzia, cioè del ruolo concretamente assunto da una determinata persona, viene in luce l’esigenza di temperare i pericoli di eccessivo soggettivismo e di soluzioni vagamente eticheggianti, e di non trascurare – quindi – la considerazione della fonte dell’obbligo, al fine di individuarne il fondamento e, soprattutto, di definirne i contenuti.
Si è rammentato che la prima indiscussa fonte di obbligo è costituita dalla legge, sia quella di diritto pubblico che quella di diritto privato; sebbene non manchino disparità di opinioni a proposito della rilevanza delle fonti sublegislative come regolamenti, atti amministrativi e consuetudine. Si è soggiunto che altra sicura fonte dell’obbligo di garanzia è quella contrattuale. Essa comprende sia i contratti tipici come i contratti di prestazione d’opera della bambinaia e della guardia giurata, sia i contratti atipici che si fondano pur sempre sul consenso tra le parti. Esempi: la guida di montagna, i membri di un’associazione di volontari di pronto soccorso, i vicini di casa che si offrono senza retribuzione di accompagnare l’inesperto escursionista, di trasportare in ospedale l’ammalato o di custodire il bambino in assenza dei genitori, con accettazione del servizio da parte dei beneficiari. In conseguenza, in tale ambito possono essere collocate situazioni nelle quali l’assunzione del ruolo di garante si fonda su base consensuale. Tale importante precisazione consente di individuare la fonte legale dell’obbligo di garanzia in molte situazioni della vita ordinaria.
L’atto negoziale tipico o atipico può esser fonte dell’obbligo, come nel caso classico della guardia giurata che assume l’impegno di vigilare ed intervenire contro la commissione di rapine in banca. In tale caso la facoltà di autotutela del titolare del bene giuridico si converte in obbligo di tutela per il garante. Esso può altresì dare luogo al trasferimento dell’obbligo dal garante originario ad altro.
Peraltro, anche nel caso di assunzione consensuale, ciò che rileva maggiormente è l’oggettiva presa in carico, sicché l’obbligo di protezione potrà verosimilmente sorgere anche da una stipulazione cui non partecipi il soggetto titolare del bene, come nel caso di scuola in cui un generoso e previdente spettatore, prima di una gara di nuoto, ingaggia un battelliere perché in caso di necessità salvi un nuotatore poco provetto, senza che questi ne sappia nulla. L’obbligo di garanzia di fonte contrattuale costituisce uno degli ambiti in cui più fortemente si manifesta il contrasto tra le diverse, accennate teorie. La teoria sostanzialistica tende a svalutare l’aspetto formale della convenzione tra le parti, attribuendo rilevanza piuttosto alla assunzione concreta del ruolo di garante, sia perché l’affidamento sulla disponibilità del garante stesso induce la persona protetta ad affrontare rischi particolari o a rinunciare ad altre forme di tutela, sia perché l’effettiva presa in carico del bene aumenta oggettivamente di fronte all’ordinamento giuridico che ha cura di essi, le chances della loro salvezza. Peraltro, come viene evidenziato particolarmente dalle teorie eclettiche, l’esistenza dell’obbligo generato dal contratto non implica automaticamente che esso si configuri concretamente. Perché ciò accada occorre che vi sia l’effettivo trasferimento al garante derivato dei poteri-doveri impeditivi non solo giuridici, ma anche fattuali che non coincide necessariamente con la conclusione del contratto né con la mera presa in carico fattuale del bene, come vorrebbero rispettivamente la concezione formale e sostanziale. Una soluzione intermedia, che viene sottolineata in nome del principio di personalità della responsabilità personale.
La sentenza richiamata considera pure che le teorie eclettiche sembrano in grado di fronteggiare alcune situazioni problematiche che conducono a soluzioni talvolta inaccettabili nell’ambito delle altre elaborazioni classiche. Esse, infatti, escludono l’imputazione causale quando il contratto è perfezionato ma vi è un inadempimento contrattuale, come nel caso della guida alpina che non si fa trovare al rifugio nel giorno convenuto ed il cliente, anziché rinviare, affronta la scalata in solitaria; o della bambinaia che non si presenta in servizio all’ora stabilita, quando i genitori si allontanano ugualmente lasciando incustodito il bambino. In tali casi la mancata presa in carico del bene o della cosa fonte di pericolo costituisce inadempimento del contratto ma non dell’obbligo di garanzia giacché tale obbligo insorge al momento del trasferimento di fatto dei poteri impeditivi. Quindi la guida alpina e la bambinaia rispondono dell’inadempimento ma non della morte dello scalatore.
Sulla base del medesimo ordine concettuale, invece, l’imputazione ha luogo quando, pur in presenza di un contratto invalido, vi è stata la presa in carico del bene protetto; anche se in tale caso non è indifferente la causa dell’invalidità del negozio.
L’ambito che, nonostante le complesse elaborazioni di cui è stato oggetto, presenta maggiori aspetti problematici è quello dell’assunzione volontaria ed unilaterale dei compiti di tutela, al di fuori di un preesistente obbligo giuridico. Si tratta di un aspetto molto presente nelle dottrine sostanzialistiche, poiché valorizza l’assunzione di fatto dell’onere, la presa in carico del bene che ne accresce le possibilità di salvezza. Tale ambito copre le situazioni nelle quali il contratto è nullo e quelle in cui si è in presenza di un’iniziativa spontanea nell’assunzione dei compiti di tutela, come nei casi dei vicini di casa che, in assenza dei genitori, si prendono cura del bambino; dei volontari di pronto soccorso che, avvertiti, soccorrono il ferito in stato d’incoscienza; nonché quelli in cui vi è assunzione di compiti di tutela a seguito di atto illecito, come nel caso del sequestratore verso il sequestrato bisognoso di farmaci.
La ridetta sentenza da atto che su tale aspetto della materia esiste una grande disparità di opinioni, anche fortemente critiche rispetto alle dottrine sostanzialistiche; e suggerisce un possibile itinerario per ridurre le incertezze. Infatti, in molte delle situazioni considerate, con un’analisi attenta, non è difficile cogliere una obbligazione giuridica connessa all’assunzione unilaterale del ruolo di garante. D’altra parte, non di rado, ciò che a prima vista appare frutto di un atto unilaterale è in realtà espressione di un’obbligazione assunta con un atto negoziale atipico, come nel caso delle obbligazioni da contatto sociale. Si è conclusivamente data un’indicazione di fondo utile alla prassi: è necessario perseguire nell’esperienza giudiziaria l’integrazione dei criteri formali e sostanziali d’imputazione; avendo presenti i principi ed i valori che si trovano sullo sfondo della delicata materia.
Gli indicati principi dovranno trovare applicazione nel caso in esame, nei sensi che si sono già indicati e che giove brevemente ripetere. Da un lato si dovrà appurare se il ricorrente fosse coinvolto nell’organizzazione della struttura alberghiera e quindi dovesse assicurarne pure la sicurezza. Dall’altro, andrà verificato se egli avesse assunto il concreto obbligo giuridico di farsi carico della sicurezza degli ospiti in occasione della festa.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di O.R. e rinvia per nuovo esame alla Corte d’appello di Perugia.
Rigetta il ricorso di C.F. che condanna al pagamento delle spese processuali oltre alla rifusione delle spese in favore delle parti civili che liquida in complessivi 2.500,00 Euro per ciascuna delle due difese, oltre accessori come per legge.
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Studio Legale Avvocato Francesco Noto – Cosenza