Quali documenti sono necessari al fine di ottenere il riconoscimento della cittadinanza, da parte di chi è nato all’estero ed ha una discendenza italiana?
Il tema della c.d. cittadinanza iure sanguinis conosce un importante avallo da parte della Corte di Cassazione, chiamata a statuire in ordine agli effetti della domanda, incompleta dal punto di vista documentale, formulata dal discendente nato all’estero.
Il principio dettato dalla Corte di Cassazione, seppure sviluppato per i richiedenti nati in Brasile, ben si presta ad essere applicato ai cittadini di altri paesi, senza alcun distinguo tra domande di cittadinanza formulate per via amministrativa o giudiziale.
La Corte di Legittimità riepiloga i termini delle richieste di cittadinanza provenienti da chi è nato in Brasile, già delineate per effetto di anteriori pronunciamenti adottati nella massima composizione alcuni anni addietro. In dettaglio, con le sentenze a Sezioni Unite n. 25317 e n. 25318 del 24 Agosto 2022 (confermate dalla successiva sentenza di legittimità n. 12894/2023), sono stati circoscritti i presupposti cui consegue la perdita della cittadinanza italiana da parte dell’antenato, e dunque la preclusione all’acquisto iure sanguinis da parte del discendente nato in Brasile. La perdita della cittadinanza italiana, disciplinata dal codice civile del 1865 e dalla legge n. 555 del 1912, in rapporto al fenomeno della cosiddetta “grande naturalizzazione brasiliana” di fine 800 (decreto 58 de 14 de Dezembro de 1889 – Providencia sobre a naturalização dos estrangeiros residentes na Republica), impone una lettura restrittiva, ancor più con l’avvento della Carta Costituzionale e dei principi internazionali di carattere pattizio sottoscritti dal nostro Stato. Nel quadro normativo formatosi con il Codice Civile del 1865 – in vigenza del quale era stata approvata la legge n. 555 del 1912- e poi dell’attuale legge n. 91 del 1992, la cittadinanza iure sanguinis si acquista per il medesimo evento della nascita da cittadino italiano, ed assume carattere permanente, passibile di essere fatta valere in ogni tempo, in base alla mera circostanza della ascendenza italiana. A colui che richiede il riconoscimento della cittadinanza spetta provare solo il fatto acquisitivo e la linea di trasmissione, nel mentre incombe alla controparte, che abbia mosso una specifica obiezione, dimostrare l’eventuale fatto ostativo. In detta cornice di lettura, l’art. 11, n. 2, c.c. del 1865, nella parte in cui statuisce la perdita della cittadinanza italiana, da parte di colui che ha ottenuto la cittadinanza in un paese estero, presuppone accertare la sussistenza di un atto volontario dell’ascendente, finalizzato ad acquisire la cittadinanza del paese straniero -in termini esemplificativi, è tale la domanda di iscrizione nelle liste elettorali secondo la legge del luogo-. Di contro, la mera emigrazione all’estero, il mancato ritorno nel paese di origine, la sussistenza di un provvedimento legislativo volto a naturalizzare i cittadini immigrati (in Brasile), o anche la mancata reazione alla grande naturalizzazione brasiliana, non possono determinare la perdita della cittadinanza italiana, quale effetto dell’acquisto tacito della cittadinanza brasiliana. Al riguardo, dal combinato disposto degli artt. 3, 4, 16 e 22 della Costituzione, dell’art. 15 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 10 dicembre 1948, e del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, si ricava il principio secondo cui ogni persona ha un diritto inviolabile e permanente a mantenere lo status di cittadino. Tale diritto si può perdere per rinuncia, ma conseguente ad una condotta volontaria, fattiva ed esplicita, ma in alcun momento per accettazione tacita della cittadinanza straniera, conseguente ad un provvedimento generalizzato di naturalizzazione.
Dopo avere operato siffatta premessa di lettura, la Corte di Cassazione affronta il caso portato alla sua attenzione, che ha visto i giudici del doppio grado di merito respingere la domanda di riconoscimento della cittadinanza italiana per interruzione della linea di discendenza. In termini del tutto simmetrici, il Tribunale prima, e poi la Corte di Appello, rilevavano come, la ricorrente, nel documentare la linea di discendenza rispetto all’antenato italiano poi emigrato in Brasile, non aveva allegato il certificato di nascita con indicazione di paternità e maternità del figlio dell’avo italiano emigrato, per quanto tale mancanza sarebbe stata sopperita dal certificato di matrimonio dell’avo, nel quale quest’ultimo e la moglie riconoscevano espressamente il figlio comune (nato al di fuori del matrimonio). Tale approccio documentale veniva ritenuto deficitario dai giudici di merito, sul presupposto che, in ossequio al principio di iura novit curia, il rapporto di filiazione doveva essere dimostrato secondo la regola fissata dall’art. 1603 del codice civile brasiliano, e dunque solo tramite certificato di nascita registrato nel pertinente registro civile; il riconoscimento successivo, trasfuso nell’atto di matrimonio, non poteva ritenersi valido ai fini probatori.
Tale lettura, a seguito di ricorso interposto dalla richiedente la cittadinanza italiana, viene disattesa dalla Corte di Cassazione, enunciando un principio di diritto che semplifica il riconoscimento della cittadinanza iure sanguinis. Nel mutare i termini esegetici ad oggi impartiti, viene focalizzata l’attenzione, ai fini della norma applicabile (italiana o brasiliana), non già sulla ricorrente, bensì sull’ascendente, i cui genitori erano certamente cittadini italiani. In detti termini, ed ai sensi dell’art. 33, L. 218 del 1995, si ritiene applicabile ai fini della prova della filiazione il diritto italiano, in luogo dell’art. 1602 del codice civile brasiliano. Una volta ritenuto applicare la legge italiana, trova impiego l’art. 237, codice civile del 1865, a tenore del quale: “Il possesso di stato risulta da una serie di fatti che nel loro complesso valgano a dimostrare le relazioni di filiazione e di parentela fra una persona e la famiglia a cui essa pretende di appartenere. In ogni caso devono concorrere i seguenti fatti: che il genitore abbia trattato la persona come figlio ed abbia provveduto in questa qualità al mantenimento, all’educazione e al collocamento di essa; che la persona sia stata costantemente considerata come tale nei rapporti sociali; che sia stata riconosciuta in detta qualità dalla famiglia”.
La norma permette così sopperire al mancato recupero dell’atto di nascita, o comunque delle relative notizie circa la filiazione, fermo applicarsi in termini sussidiari, come sancito dall’art 236 cc 1865, il quale impone dimostrare la filiazione con l’atto di nascita iscritto nei registri dello stato civile oppure, ai sensi del comma secondo, tramite il possesso continuo dello stato di figlio.
Alla luce del principio dettato dal codice civile del 1865, il riconoscimento postumo, effettuato nell’atto di matrimonio, appare certamente idoneo a comprovare la paternità ed il correlato acquisto della cittadinanza italiana iure sanguinis in capo ai discendenti nati all’estero (Cassazione Civile, sentenza 22 Maggio 2024, N° 14194).
Studio Legale Avvocato Francesco Noto Cosenza Napoli