Il Giudice nomofilattico ancora una volta esclude che, il provvedimento di reintegra disposto ex art. 18 L. 300 del 1970, al pari di ogni obbligazione fungibile, possa conoscere una fase di coatta esecuzione, a fronte della inerzia serbata dal datore. Ciò in quanto, il dictum giudiziale non importa soltanto il reinserimento del lavoratore nell’azienda, ma una condotta fattiva del datore di lavoro, consistente nell’impartire al dipendente le misure atte a ripristinare una reciproca ed infungibile collaborazione. Tale quid pluris, per fatti immanenti, non si presta ad essere realizzato mediante prestazione succedanea ad opera di un terzo. Cassazione Civile, Sezione Lavoro, 18 Giugno 2012, sentenza N° 9965. <!—->
1. L’INPS ha applicato la sanzione prevista dall’ultimo comma dell’art. 18 st. lav. nei confronti della società per azioni C. per il seguente motivo; il giudice del lavoro di Bergamo, con sentenza confermata in appello ed in Cassazione, accertò l’illegittimità del licenziamento disposto dalla società nei confronti di due suoi dipendenti, nonché dirigenti sindacali aziendali, e ordinò la loro reintegrazione nel posto di lavoro. La società ha ritenuto di dare esecuzione alla sentenza corrispondendo ai lavoratori reintegrati la retribuzione e consentendo l’ingresso in azienda per svolgere le funzioni di dirigenti sindacali, ma non ha consentito loro di riprendere l’attività lavorativa.
2. Il problema giuridico che si pone è quello di stabilire se questa scelta aziendale rispetti o meno quanto disposto dall’art. 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300.
3. L’INPS ha ritenuto che il comportamento della società non sia conforme alla legge ed ha, di conseguenza, applicato la sanzione prevista dall’ultimo comma dell’art. 18, mediante l’emissione di cartelle esattoriali, che sono state opposte dalla società con i ricorsi introduttivi, poi riuniti, di questo giudizio.
4. Il Tribunale di Bergamo e poi la Corte d’appello di Brescia, hanno dato ragione all’INPS, affermando che il comportamento della società non con figura “un reale adempimento dell’ordine di reintegrazione” contenuto nella sentenza passata in giudicato perché l’adempimento del contratto di lavoro da parte del datore di lavoro, cui è strumentale l’obbligo di reintegrazione, implica che al lavoratore venga consentito di rendere la prestazione, che non è solo un obbligo ma anche un diritto.
5. La C.T.G. spa, con ricorso per cassazione articolato in nove motivi, chiede l’annullamento della decisione della Corte d’appello di Brescia.
6. L’INPS e la S.C.C.I. si sono difesi con controricorso. L’altra società intimata non ha svolto attività difensiva.
7. La questione centrale del giudizio viene riproposta con il quarto ed il quinto motivo di impugnazione, con i quali la società ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, ritenendo che l’iscrizione libro paga e matricola con il pagamento della retribuzione (quarto motivo) e l’aver consentito l’ingresso in azienda per lo svolgimento dell’attività sindacale (quinto motivo) siano comportamenti che costituiscono attuazione integrale dell’ordine giudiziale previsto dall’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300.
8. Il testo normativo da interpretare è costituito dai commi primo, settimo e decimo dell’art. 18. Il primo comma dispone che il giudice, se accerta la illegittimità del licenziamento, “ordina al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro”.
9. Il settimo comma prevede una tutela particolare per il licenziamento illegittimo dei lavoratori di cui all’art. 22 (dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali), per i quali, anche con ordinanza emessa in ogni stato e grado del giudizio, può essere disposta “la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro”.
10. Il decimo comma sancisce: “Nell’ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all’art. 22, il datore di lavoro che non ottempera alla sentenza o all’ordinanza … è tenuto anche, per ogni giorno di ritardo, al pagamento a favore del Fondo adeguamento pensioni di una somma pari all’importo della retribuzione dovuta al lavoratore”.
11. La società ricorrente fonda la sua tesi sul rilievo che, come ha anche riconosciuto il Tribunale di Bergamo con provvedimento confermato in Cassazione. L’ordine di reintegrazione non è coercibile. Da tale affermazione desume che il rifiuto da parte del datore di lavoro di accettare la prestazione lavorativa è legittimo, traendone la conseguenza che non è applicabile il decimo comma dell’art. 18.
12. La prima affermazione, che, in effetti è stata fatta anche dal tribunale di Bergamo ed è stata convalidata dal giudizio di cassazione, è condivisibile. L’ordine di reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato non è suscettibile di esecuzione specifica, in quanto l’esecuzione in forma specifica è possibile per le obbligazioni di fare di natura fungibile, mentre la reintegrazione nel posto di lavoro comporta non soltanto la riammissione dei lavoratore nell’azienda (e cioè un comportamento riconducibile ad un semplice ‘patì’) ma anche un indispensabile ed insostituibile comportamento attivo del datore di lavoro di carattere organizzativo-funzionale, consistente, fra l’altro, nell’impartire al dipendente le opportune direttive, nell’ambito di una relazione di reciproca ed infungibile collaborazione (Cass. n. 9125 del 1990 e n. 112 del 1988).
13. Se tale affermazione in ordine alla incoercibilità è fondata, non è invece condivisibile la conseguenza che la società ricorrente propone di trarne e cioè che l’incoercibilità comporti la non applicabilità della sanzione specifica prevista dal decimo comma dell’art. 18.
14. Quest’ultima disposizione non è collegata alla coercibilità dell’ordine di reintegrazione, ma semplicemente alla – ‘inottemperanza’ dell’ordine di reintegrazione.
15. Per stabilire se vi è, o meno, ottemperanza, bisogna analizzare il contenuto dell’ordine previsto dalla norma di legge. L’espressione usata dal legislatore è molto ampia: il giudice deve ordinare al datore di lavoro di “reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro”.
16. “Reintegrare” significa “restituire in integro”: cioè riportare nella condizione di pienezza del diritto leso, comprensiva di tutti i profili, tanto economici che non economici. Questa integralità della posizione da ripristinare insita nel concetto di reintegrazione è poi ulteriormente rafforzata dall’utilizzo della espressione “nel posto di lavoro”, che esclude ogni dubbio sul fatto che la ricostruzione debba riguardare l’integralità della posizione del lavoratore e non solo i profili retributivi ed eventualmente sindacali.
17. La norma dello Statuto dei lavoratori si colloca in coerente continuità con i principi costituzionali e i classici del diritto processuale civile.
18. Che il lavoratore, in base al contratto di lavoro, abbia diritto, non solo a percepire la retribuzione, ma anche a lavorare, è concetto che si fonda sui principi costituzionali e che trova riscontro nei numerosi filoni giurisprudenziali che tutelano il lavoratore contro comportamenti datoriali in cui, senza giustificazione, al lavoratore viene pagata la retribuzione, ma non viene fatta eseguire la prestazione.
19. ll lavoro non è solo strumento di sostentamento economico, ma è anche strumento di accrescimento della professionalità e di affermazione della propria identità a livello individuale e nel contesto sociale. Questa molteplicità di profili è considerata dalla Costituzione quando afferma che la Repubblica è fondata sul lavoro (art. 1), riconosce i diritti dell’uomo “sia come singolo che nelle formazioni sociali”(art. 2) e in particolare riconosce “il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”, che è altresì un “dovere” nei confronti della società (art. 4).
20. In questo contesto di valori ordinamentali, ottemperare all’ordine di “reintegrazione nel posto di lavoro” non può significare limitarsi a pagare la retribuzione e a permettere lo svolgimento dell’attività sindacale, ma significa ripristinare il rapporto di lavoro nella sua pienezza, consentendo l’esercizio dell’attività lavorativa.
21. Tutto ciò corrisponde anche ai fondamentali principi del diritto processuale civile italiano, i cui classici hanno sottolineato come “il processo deve dare, per quanto è possibile praticamente, a chi ha un diritto tutto quello e proprio quello ch’egli ha diritto di conseguire”.
22. Richiamando quei principi, le Sezioni unite hanno affermato che “oggi l’obbligazione di ricostruire la situazione di fatto anteriore alla lesione del diritto rendendo così possibile l’esatta soddisfazione del creditore, non tenuto ad accontentarsi dell’equivalente pecuniario, costituisce la traduzione nel diritto sostanziale del principio, affermato dalla dottrina processuale degli anni trenta e poi ricondotto all’art. 24 Cost. (Corte cost. sentenze 253/1994 e 483/1995) secondo cui il processo (ma potrebbe dirsi il diritto oggettivo in caso di violazione) deve dare alla parte lesa tutto quello e proprio quello che le è riconosciuto dalla norma sostanziale” (Così: Sez. un. 10 gennaio 2006, n. 141).
23. La medesima sentenza delle Sezioni unite, passando dalle categorie generali del diritto civile al diritto del lavoro, ha poi aggiunto: “questa conclusione, valida sul piano generale serve a maggior ragione nel diritto del lavoro, non solo perché qualsiasi normativa settoriale non deve derogare al sistema generale senza necessità, ma anche perché il diritto del lavoratore ai proprio posto, protetto dagli artt. 1, 4 e 35 Cost., subirebbe una sostanziale espropriazione se ridotto in via di regola al diritto ad una somma”.
24. Altri principi dell’ordinamento impongono, come si è visto, in presenza di obbligazioni non fungibili, di non consentire l’esecuzione in forma specifica delle stesse. Ma le due questioni si pongono su piani diversi, che noti devono essere confusi. Incoercibilità in forma specifica non significa che I”obbligo di reintegrazione possa considerasi ottemperato con il mero pagamento della retribuzione. Né deve ritenersi che ineseguibilità in forma specifica significhi esenzione da qualsiasi sanzione. Anzi, è proprio questo il campo in cui i legislatori utilizzano quelle che in Francia vengono dette astreintes, strumenti di coercizione ‘indiretta’ per indurre all’adempimento l’obbligato, mediante il pagamento di una somma da versare qualora rifiuti di ottemperare all’ordine del giudice di eseguire la prestazione dovuta.
25. In più casi anche l’ordinamento italiano, a fronte dell’inadempimento di obblighi non coercibili in forma specifica, prevede sanzioni alternative finalizzate ad ottenere comunque, per vie diverse, l’adempimento dell’obbligo. Uno di questi casi è quello previsto dai commi settimo e decimo dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, nel quale, a fronte dell’accertamento della legittimità di un licenziamento di particolare gravità, il legislatore ha scelto di sanzionare la mancata ottemperanza dell’ordine di reintegrazione con una sanzione aggiuntiva rispetto a quella ordinaria prevista dalla prima parte dell’art. 18.
26. Tale sanzione aggiuntiva consiste nel pagamento di una somma non in favore del lavoratore, bensì di un fondo pubblico (Fondo adeguamento pensioni) e quindi della collettività, a sottolineare che, nella valutazione del legislatore, quell’inottemperanza lede interessi e valori che vanno al di là della posizione del singolo ed investono l’interesse generale a che i provvedimenti giurisdizionali siano rispettati e correttamente applicati.
27. I due motivi di ricorso riguardanti la questione centrale del processo devono essere pertanto rigettati, ma sono infondati anche tutti gli altri motivi, relativi a profili formali.
28. Con il primo si denunzia violazione dell’art 24 comma 3° del d. lgs 26 febbraio 1999, n. 46 perché nel ricorso depositato 16 dicembre 2004 della C. in opposizione a cartella esattoriale n. 01920040066462702 era stata formulata un’eccezione di inammissibilità dell’iscrizione a ruolo che la Corte ed il Tribunale avrebbero erroneamente respinto. Il secondo motivo ritorna sul tema sotto il profilo del vizio di motivazione.
29. La ragione della infondatezza di tali motivi è più radicale di quella indicata nella sentenza impugnata, la cui motivazione sul punto deve essere quindi modificata ai sensi dell’art. 384 c.p.c. La regola dettata all’articolo di cui la ricorrente assume la violazione (art. 24 del d.lgs 26 febbraio 1999, n. 46) riguarda “i contributi o premi dovuti” e non versati agli enti pubblici previdenziali (sul punto cfr. Cass. Sez. un. 10 marzo 2011, n. 5680), mentre l’accertamento oggetto di questa controversia riguarda il pagamento a favore del fondo adeguamento pensioni, previsto dall’art. 18, ult. Comma, della legge n. 300 del 1970 per il caso di inottemperanza al provvedimento del giudice; pagamento che non è un contributo, né un premio, ma una sanzione.
30. Il terzo motivo denunzia violazione dell’art. 25, comma 2°, del d.p.r. 29 settembre 1973, n. 602. Si sostiene che la motivazione della sentenza “è erronea laddove afferma che la cartella di pagamento non debba contenere alcuna motivazione” è “comunque non debba contenere le indicazioni che contestano al destinatario di comprendere a quali debiti la cartella faccia riferimento quali, nel caso di contributi richiesti a seguito di avviso di accertamento ispettivo, gli estremi del medesimo avviso di accertamento e se, conseguentemente debba essere ritenuta nulla la cartella priva dei suddetti riferimenti” (cfr. ricorso, pag. 22 e quesito a pag. 35). In tal modo però la società ricorrente attribuisce alla sentenza affermazioni che la Corte non ha compiuto. La Corte di appello ha sostenuto due cose distinte: che la cartella non deve contenere una motivazione, ma solo l’indicazione del titolo e del ‘quantum’ della pretesa; che tali due elementi sono ‘entrambi chiaramente espressi nella cartella opposta. La prima affermazione si uniforma ad un principio di diritto sicuramente condivisibile, posto che l’art. 25, secondo comma, cit. richiede solo che la cartella contenga l’intimazione ad adempiere l’obbligo risultante dal ruolo, con l’avvertimento che in mancanza si procederà ad esecuzione forzata. Non è richiesta alcuna motivazione. Quanto al secondo punto, la Corte non ha affatto sostenuto che la cartella può omettere di indicare titolo e ‘quantum’ della pretesa; ha anzi affermato che deve contenere tali elementi e che, nella specie, la cartella oggetto dell’opposizione premetteva di indentificarli, spiegando il perché di tale asserzione. Il principio di diritto affermato è corretto, mentre la valutazione sul contenuto della cartella concerne il merito della decisione è non può essere oggetto di una nuova valutazione in sede di legittimità, in presenza di adeguata motivazione sui punto, priva di contraddizioni.
31. Con il sesto ed il settimo motivo si denunzia violazione degli artt. 2697 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c. perché la Corte ha ritenuto che i lavoratori avessero rivestito la qualifica di dirigenti sindacali e quindi fossero destinatari dell’art. 22 avendo “erroneamente valutato le risultanze dell’istruttoria testimoniale e la documentazione acquisita”. I motivi sono inammissibili perché concernono il merito della valutazione della prova, collocandosi oltre l’ambito del giudizio di legittimità.
32. Con l’ottavo motivo si denunzia violazione dell’art. 18. ultimo comma. St. lav. per aver ignorato la rilevanza dell’elemento soggettivo nel ritenere applicabile la sanzione, in quanto la società non era consapevole che il lavoratore licenziato fosse dirigente sindacale. Il motivo è inammissibile perché la sentenza risponde specificamente a questa obiezione e il ricorso per cassazione non tiene conto degli argomenti della Corte, formulando critiche tarate su tali argomenti, ma si limita a riproporre genericamente la censura originaria.
33. Con il nono motivo si eccepisce l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 St. lav. per violazione artt. 3, 39 e 41 Cost. nella parte in cui prevede comunque la sanzione anche nel caso in cui ai lavoratori sindacalisti venga consentito l’esercizio dell’attività sindacale in azienda. L’eccezione è meramente enunciata e non è sostenuta da adeguate argomentazioni. Non essendovi motivi per porla d’ufficio, la stessa deve essere valutata manifestamente infondata.
34. Il ricorso, pertanto, nel suo complesso è infondato e deve essere rigettato. Le spese dell’INPS e della S.C.C.I. spa devono essere poste a carico della società ricorrente che perde il giudizio. Nulla spese per Equitalia spa, che non ha svolto attività difensiva.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente alla rifusione a ciascun controricorrente (INPS e S.C.C.I spa) delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in 90,00 euro, nonché 5.000,00 (cinquemila) euro per onorari, oltre accessori. Nulla spese per Equitalia Esatri spa.
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Studio Legale Avvocato Francesco Noto – Cosenza