Per il Giudice nomofilattico il richiamo operato dall’art. 15 D. Lgs. N° 196 del 2003, che sancisce l’obbligo di ristoro ex art. 2050 c.c. in ipotesi di illegittimo trattamento dei dati personali, non modifica il riparto probatorio indicato dalla prescrizione codicistica. Ne scaturisce per l’effetto che, il titolare dei dati, il quale lamenti un danno da attività pericolosa, ha l’onere di provare il nesso eziologico, non potendo esimersi dalla rappresentazione anzidetta. Una volta assolta tale incombenza, spetta al responsabile dimostrare l’avvenuta adozione di ogni misura idonea ed evitare il pregiudizio cagionato. Corte di Cassazione, Sezione Iª Civile – Sentenza 28 Maggio 2012, N° 8451.
Il ricorrente con il primo motivo di ricorso sostiene, deducendo il vizio di violazione di legge, che, risultando provato il comportamento illecito della banca, era onere di questa, in osservanza dell’art. 15 della legge sulla privacy, che richiama l’art. 2050 c.c., fornire la prova che non si era verificato alcun danno in capo ad esso ricorrente,dovendo il danno stesso considerarsi in re ipsa.
Con il secondo motivo sostiene, deducendo un vizio motivazionale, che erroneamente il tribunale ha ritenuto che il danno patrimoniale non risultava provato in ragione del fatto che non poteva ascriversi la mancata stipula dell’atto di donazione al comportamento della banca ed avendo altresì escluso per le stesse ragioni l’esistenza del danno non patrimoniale.
Con il terzo motivo lamenta che la sentenza impugnata non abbia preso in esame, omettendo ogni motivazione,la domanda di risarcimento del danno per violazione del segreto bancario.
Con il quarto motivo deduce l’omessa motivazione in riferimento alla domanda di risarcimento del danno per violazione dell’obbligo di buona fede nell’esecuzione del contratto.
Va preliminarmente dichiarata l’inammissibilità del controricorso non rinvenendosi in atti procura speciale alle liti, risultando depositata solo lì una procura generale.
Il primo motivo del ricorso è infondato e per certi versi inammissibile.
Il tribunale ha osservato, sulla base di una valutazione attenta delle risultanze processuali, che in realtà la mancata stipulazione della donazione dell’appartamento da parte della madre del ricorrente in favore di questi non risultava provato che fosse dovuta alla comunicazione da parte della banca della situazione debitoria del figlio bensì fosse attribuibile alla mancanza di convinzione della genitrice a stipulare l’atto risultante già in epoca antecedente alla comunicazione dei dati da parte della banca.
In altri termini la sentenza impugnata ha rilevato la mancanza di prova da parte del ricorrente della esistenza di un nesso di causalità tra la predetta comunicazione e la decisione della madre di non dar corso alla donazione dell’immobile.
Tale argomentazione è corretta in punto di diritto.
Va ricordato,come premessa che l’art. 15, comma primo, del d.lgs. n. 196 del 2003 espressamente stabilisce che ‘Chiunque cagiona danno ad altri per effetto del trattamento di dati personali è tenuto al risarcimento ai sensi dell’articolo 2050 del codice civile’.
In applicazione dei criteri stabiliti dal citato articolo 2050 del codice civile in tema di responsabilità per esercizio di attività pericolosa, questa Corte ha ripetutamente affermato che la presunzione di colpa a carico del danneggiante posta dall’art. 2050 cod. civ. presuppone il previo accertamento dell’esistenza del nesso eziologico – la cui prova incombe al danneggiato – tra l’esercizio dell’attività e l’evento dannoso, non potendo il soggetto agente essere investito da una presunzione di responsabilità rispetto ad un evento che non è ad esso in alcun modo riconducibile. Sotto il diverso profilo della colpa, incombe invece sull’esercente l’attività pericolosa l’onere di provare di avere adottato tutte le misure idonee a prevenire il danno (Cass. 5080/06; Cass. 19449/08; Cass. 4792/01; Cass. 12307/98).
Le censure che il ricorrente muove a tale motivazione in punto di diritto non colgono nel segno.
Nel caso di specie non rileva infatti l’inversione dell’onere della prova previsto dall’art. 2050 c.c., secondo cui chi cagiona un danno nell’esercizio di una attività pericolosa è tenuto a risarcire i danni se non prova di avere adottato tutte le misure necessarie a risarcire il danno, poiché non è stato su tale elemento che il Tribunale ha fondato la propria decisione, ma, come detto, sulla mancanza di nesso di causalità tra il comportamento illecito e l’evento dannoso, in relazione al quale non si rinviene alcuna esplicita censura in punto di diritto.
Per lo stesso motivo è del tutto priva di rilevanza la censura che si riferisce alla esistenza del danno in re ipsa, non essendosi anche in tal caso il Tribunale pronunciato in alcun modo sulla inesistenza del danno né sulla prova del suo ammontare.
Anche il secondo motivo,con cui, in particolare, il ricorrente censura sotto il profilo motivazionale la ritenuta insussistenza del nesso di causalità tra la comunicazione della banca e la mancata stipula della donazione, è inammissibile.
Il Tribunale, come già rilevato, ha ritenuto l’insussistenza del predetto nesso sulla base di una valutazione attenta delle risultanze processuali, In particolare, ha accertato la mancanza di convinzione della genitrice a stipulare l’atto risultante già in epoca antecedente alla comunicazione dei dati da parte della banca.
A tale proposito il Tribunale ha acclarato, tramite la deposizione del commercialista della madre del ricorrente e la lettera inviata dal primo a quest’ultima in data 14.3.2006, che, a fronte della urgenza di stipulare l’atto prima delle elezioni politiche dell’aprile 2006, a seguito delle quali sarebbe stato prevedibile che le donazioni tra genitori e figli sarebbero state sottoposte nuovamente a tassazione, ed alla data già fissata per la stipula innanzi al notaio, la signora G. aveva ritenuto di non dar corso alla vicenda. Da tale circostanza ha desunto che quest’ultima non aveva maturato alcuna decisione in proposito onde non poteva ritenersi che la comunicazione della banca della situazione debitoria del figlio l’avesse dissuasa da una decisione ormai presa.
Trattasi di una valutazione in punto di fatto logicamente argomentata e basata su elementi obiettivi di giudizio acquisiti dall’attività istruttoria e come tale non censurabile in sede di legittimità.
Il ricorrente censura tale motivazione affermando che la stessa era basata su un esame parziale degli atti e che da una valutazione completa degli stessi, e, in particolare, delle lettere della signora G. del 6 settembre 2006 e del 18 agosto 2007 nonché dalle sue stesse dichiarazioni, sarebbe emerso con tutta chiarezza che in realtà fu proprio la comunicazione della Banca a far cambiare idea alla signora G. .
Sul punto è appena il caso di rammentare che l’onere di adeguatezza della motivazione non comporta che il giudice del merito debba occuparsi di tutte le allegazioni della parte, ne1 che egli debba prendere in esame, al fine di confutarle o condividerle, tutte le argomentazioni da questa svolte. È, infatti, sufficiente che il giudice dell’impugnazione esponga, anche in maniera concisa, gli elementi posti a fondamento della decisione e le ragioni del suo convincimento, così da doversi ritenere implicitamente rigettate tutte le argomentazioni incompatibili con esse e disattesi, per implicito, i rilievi e le tesi i quali, se pure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la conclusione affermata e con l’iter argomentativo svolto per affermarla (Cass., n. 696 del 2002; n. 10569 del 2001; n. 13342 del 1999); è cioè sufficiente il riferimento alle ragioni in fatto ed in diritto ritenute idonee a giustificare la soluzione adottata, (Cass. n. 9670 del 2003; n. 2078 del 1998).
Nel caso di specie pertanto, il tribunale ha correttamente selezionato gli elementi ritenuti rilevanti ai fini del decidere ed in base ad essi ha argomentato la propria decisione.
Le censure che il ricorrente propone a tale motivazione tendono in realtà a sollecitare, contra ius e cercando di superare i limiti istituzionali del giudizio di legittimità, un nuovo giudizio di merito, in contrasto con il fermo principio di questa Corte secondo cui il giudizio di legittimità non è un giudizio di merito nel quale possano sottoporsi alla attenzione dei giudici della Corte di Cassazione elementi di fatto già considerati dai giudici del merito, al fine di pervenire ad un diverso apprezzamento dei medesimi (cfr. Cass. n, 12984 del 2006; Cass., 14/3/2006, n. 5443).
Resta da dire della censura relativa al mancato riconoscimento del danno non patrimoniale.
Tale censura è infondata e per certi versi inammissibile in base alle stesse argomentazioni espresse nell’esame del primo motivo del ricorso.
È infatti evidente che, se non esiste il nesso di causalità tra il fatto illecito e l’evento dannoso, tale circostanza vale sia in riferimento al danno patrimoniale che a quello non patrimoniale, come correttamente affermato dal tribunale.
In tal senso le censure del ricorrente non colgono la citata ratio decidendi, limitandosi ad affermare la sussistenza di elementi comprovanti il danno non patrimoniale.
Il terzo ed il quarto motivo sono inammissibili.
La sentenza impugnata non fa alcun cenno a domande di risarcimento per violazione del segreto bancario o per violazione del principio di buona fede nell’esecuzione del contratto.
Era pertanto onere del ricorrente riportare nel ricorso i brani dell’atto introduttivo del giudizio contenenti le domande in questione. In assenza di ciò i motivi risultano a questa Corte del tutto nuovi e come tali non possono avere ingresso in questo giudizio di legittimità.
Il ricorso va in conclusione respinto.
Nulla per le spese.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
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Studio Legale Avvocato Francesco Noto – Cosenza