Per il Giudice nomofilattico l’omesso o tardivo recepimento, da parte del legislatore italiano, della direttiva comunitaria importa, conformemente ai criteri affermati dalla Corte di Giustizia, il diritto degli interessati al risarcimento dei danni, da qualificare come inadempimento dell’obbligazione ex lege dello Stato. La condotta antigiuridica di quest’ultimo, al pari di qualsiasi altra, è passibile di ristoro, alla stregua dell’ordinamento comunitario. Corte di Cassazione, Sez. IIIª, Sentenza 22 Marzo 2012, N° 4538.
MOTIVI DELLA DECISIONE
p.1. Preliminarmente si rileva che il ricorso incidentale proposto in seno a quello principale va trattato unitamente a quest’ultimo. Detto ricorso incidentale è tempestivo in relazione alla notificazione del ricorso, anche se ha natura di impugnazione incidentale tardiva ai sensi dell’art. 334 c.p.c., comma 1.
p.1.1. Sempre in via preliminare va rilevato che nè il ricorso principale nè quello incidentale risultano notificati alle altre due Amministrazioni ed agli altri medici che erano parti del giudizio di appello.
Essendo le domande proposte da ciascuno dei medici collegate secondo un nesso litisconsortile iniziale facoltativo ed essendo il litisconsorzio rimasto in sede di gravame scindibile, la notifica si sarebbe dovuta fare ai sensi dell’art. 332 c.p.c.. La stessa cosa dicasi per le posizioni della Presidenza del Consiglio dei ministri e dell’Università.
Poichè risulta ormai preclusa l’impugnazione da parte sia dei medici pretermessi in sede di notifica dei ricorsi sia nei confronti delle due Amministrazioni non evocate, non è più necessario provvedere ai sensi dell’art. 332 c.p.c..
p.2. Con il primo motivo del ricorso principale si lamenta ‘violazione degli artt. 2043, 2946, 2947 e 2948 c.c.. – Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio – Art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5’.
Vi si censura la sentenza impugnata là dove, sulla premessa dell’applicazione della qualificazione del resistente alla stregua di Cass. sez. un. n. 9147 del 2009, le ha riconosciuto per l’anno 1992- 1993 l’adeguata remunerazione – che era stata richiesta con la domanda – applicando la prescrizione decennale, mentre invece detta sentenza aveva affermato l’applicazione di essa all’indennizzo per la mancata o tardiva trasposizione delle note direttive. Il regime prescrizionale applicabile alla domanda relativa all’adeguata remunerazione sarebbe stato, invece, quello quinquennale di cui all’art. 2948 c.c..
p.3. Con il secondo motivo si deduce ‘violazione D.Lgs. n. 257 del 1991 (e della) L. n. 370 del 1999; art. 2043 cod. civ. – Direttive CEE 82/76, 93/16 – Vizio di motivazione Art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 ‘.
Il motivo si articola in due distinte censure.
Con la prima si critica l’applicazione che la Corte romana ha fatto dei principi di diritto affermati da Cass. sez. un. n. 9147 del 2009 quanto al termine prescrizionale decennale e della qualificazione dell’azione che ne costituisce il presupposto. Ma la critica è svolta, in modo del tutto sorprendente, cioè invocando tre precedenti di merito del Tribunale di Roma che avrebbero sostenuto (non è detto se dissentendo dal dictum delle Sezioni Unite) la qualificazione alla stregua dell’art. 2043 c.c. e, quindi, l’applicabilità della prescrizione quinquennale. Solo nella parte finale si invoca anche il precedente di questa Corte di cui a Cass. n. 12814.
Con la seconda censura – che è svolta nella parte centrale dell’illustrazione del motivo – si lamenta, invece, che, una volta condivisa la qualificazione della pretesa della qui resistente alla stregua della sentenza delle Sezioni Unite e, quindi, la prospettiva della obbligazione ex lege statuale di indennizzare il medico per l’inadempimento alle direttive, sarebbe erroneo quantificare il dovuto alla stregua di quanto prevedeva il D.Lgs. n. 257 del 1991, art. 6. Tale quantificazione sarebbe corretta solo se si accettasse la qualificazione ai sensi dell’art. 2043 e, quindi, la conseguenza della prescrizione decennale. In sostanza questa seconda censura è volta a contestare la quantificazione del dovuto effettuata dalla sentenza impugnata con riferimento all’ammontare della borsa di studio di cui al D.Lgs. n. 257 del 1991 anzichè in una misura indennitaria.
p.4. Con il terzo motivo si denuncia ‘violazione dell’art. 2697 e segg. c.c.; violazione D.Lgs. n. 257 del 1991, L. n. 370 del 1999, art. 11 – Omessa, insufficiente contraddittoria motivazione – art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5’.
Vi si contesta la sentenza impugnata per avere quantificato il dovuto per l’unico anno accademico per cui non ha riconosciuto prescritta la domanda alla stregua della borsa di studio di cui al D.Lgs. n. 257 del 1991, senza considerare che essa era prevista per un impegno a tempo pieno, ma sulla base delle attività effettivamente prestate e da documentare necessariamente a cura della dottoressa. Inoltre, quest’ultima avrebbe omesso di documentare gli ulteriori redditi percepiti nel periodo di interesse, con riferimento al lavoro autonomo o dipendente, onde sarebbero state insussistenti le condizioni di legge per il riconoscimento giudiziale di quanto previsto dal D.Lgs. Ancora: la sentenza impugnata non avrebbe considerato che i medici cui si applicava direttamente il D.Lgs. erano tenuti ad oneri di frequenza e di orario molto più rilevanti di quelli cui era stata tenuta la qui resistente.
p.5. Con l’unico motivo di ricorso incidentale si censura la sentenza impugnata per avere dichiarato prescritto il diritto della M. per gli anni di corso antecedenti al 1992-1993 senza considerare che vi erano stati atti interruttivi compiuti con raccomandate del luglio del 2000 a tutti i soggetti originariamente convenuti fra cui i due ministeri qui ricorrenti.
p.6. Il primo motivo del ricorso principale è infondato.
Il diritto esercitabile dagli specializzandi in relazione all’inadempimento delle direttive è esclusivamente quello individuato dalla sentenza delle Sezioni Unite e la qualificazione della domanda alla stregua di quanto da esse prospettate è sovrapponibile dal giudice, non rappresentando alcuna immutazione della domanda, bensì soltanto l’esatta qualificazione in iure (come, del resto, nel punto 3 della motivazione le stesse Sezioni Unite ebbero a precisare diffusamente). E dunque, la Corte territoriale – al di là del fatto che non si lamenta una immutazione e se la si fosse lamentata lo si sarebbe fatto a torto – bene ha applicato il relativo regime prescrizionale alla domanda esattamente qualificata.
Nel solco delle Sezioni Unite si sono poste anche le sentenze gemelle nn. 10813, 10814,10815 e 10816 del 2011 alle quali è sufficiente rimandare, nonchè svariate sentenze successive.
p.7. La prima censura del secondo motivo, là dove manifesta dissenso da Cass. sez. un. n. 9147 del 2009 è infondata alla luce degli sviluppi della giurisprudenza di questa Corte manifestatisi proprio a partire dalla citate sentenze gemelle.
Nel contempo proprio tali sviluppi evidenziano la fondatezza del motivo di ricorso incidentale proposto dalla M. e ciò sulla base dell’applicazione dell’esatto diritto emergente da detti sviluppi, che rende superflua la stessa allegazione dell’esistenza delle lettere interruttive del corso della prescrizione fatta dalla M. (e che sarebbe stata carente di indicazione specifica ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 6).
Invero, le sentenze citate, dopo avere ribadito la qualificazione proposta dalle Sezioni Unite (e, nell’ambito della motivazione essersi fatto carico anche di Cass. n. 12814 del 2009, evocata dal motivo di ricorso), hanno affrontato il problema di individuazione del dies a quo ed affermato una serie di principi di diritto, che successivamente sono stati ribaditi con le altre sentenze pronunciate su questioni simili nella stessa udienza del 18 aprile 2011 e depositate successivamente ad esse, nonchè in ulteriori decisioni pronunciate all’esito di udienze successive.
Nelle dette decisioni si è anzitutto inteso dare continuità all’insegnamento delle Sezioni Unite della Corte circa la natura dell’azione esercitata per pretese come quella del ricorrente e circa il termine di prescrizione applicabile. Tale insegnamento si è espresso – va ricordato – nel seguente principio di diritto: ‘In caso di omessa o tardiva trasposizione da parte del legislatore italiano nel termine prescritto delle direttive comunitarie (nella specie, le direttive n. 75/362/CEE e n. 82/76/CEE, non auto esecutive, in tema di retribuzione della formazione dei medici specializzandi) sorge, conformemente ai principi più volte affermati dalla Corte di Giustizia, il diritto degli interessati al risarcimento dei danni che va ricondotto – anche a prescindere dall’esistenza di uno specifico intervento legislativo accompagnato da una previsione risarcitoria – allo schema della responsabilità per inadempimento dell’obbligazione ex lege dello Stato, di natura indennitaria per attività non antigiuridica, dovendosi ritenere che la condotta dello Stato inadempiente sia suscettibile di essere qualificata come antigiuridica nell’ordinamento comunitario ma non anche alla stregua dell’ordinamento interno. Ne consegue che il relativo risarcimento, avente natura di credito di valore, non è subordinato alla sussistenza del dolo o della colpa e deve essere determinato, con i mezzi offerti dall’ordinamento interno, in modo da assicurare al danneggiato un’idonea compensazione della perdita subita in ragione del ritardo oggettivamente apprezzabile, restando assoggettata la pretesa risarcitoria, in quanto diretta all’adempimento di una obbligazione ex lege riconducibile all’area della responsabilità contrattuale, all’ordinario termine decennale di prescrizione’.
Le citate sentenze gemelle, facendosi carico delle critiche rivolte alle Sezioni Unite quanto a detta qualificazione, hanno precisato che ‘il concetto di responsabilità contrattuale è stato usato dalle Sezioni Unite palesemente nel senso non già di responsabilità che suppone un contratto, ma nel senso – comune alla dottrina in contrapposizione all’obbligazione da illecito extracontrattuale – di responsabilità che nasce dall’inadempimento di un rapporto obbligatorio preesistente, considerato dall’ordinamento interno, per come esso deve atteggiarsi secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia, come fonte dell’obbligo risarcitorio, secondo la prospettiva scritta nell’art. 1173 c.c.’.
p.7.1. In secondo luogo, sulla base di un’ampia ricognizione dell’evoluzione della giurisprudenza comunitaria a partire dalla nota sentenza sul caso E., si sono affermati i seguenti principi di diritto: ‘la giurisprudenza della Corte di Giustizia, in tema di azione risarcitoria di diritto interno, da inadempimento di direttiva sufficientemente specifica nell’attribuire ai singoli diritti, ma non self-executing, evidenzia conclusioni certe nel senso: a) la regolamentazione delle modalità, anche quoad termini di decadenza o prescrizione, dell’azione risarcitoria da inadempimento di direttiva attributiva di diritti ai singoli compete agli ordinamenti interni;
b) in mancanza di apposita disciplina da parte degli Stati membri, che dev’essere ispirata ai principi di equivalenza ed effettività, il giudice nazionale può ricercare analogicamente la regolamentazione dell’azione, ivi compresi eventuali termini di decadenza o prescrizione, in discipline di azioni già regolate dall’ordinamento, purchè esse rispettino i principi suddetti e, particolarmente, non rendano impossibile o eccessivamente gravosa l’azione; c) l’applicazione di un termine di prescrizione che così ne risulti, cioè che derivi dal riferimento che il giudice nazionale fa ad una disciplina interna regolamentante altra azione, è possibile comunque solo se essa può considerarsi sufficientemente prevedibile da parte dei soggetti interessati, dovendo, dunque, il giudice nazionale procedere necessariamente a tale apprezzamento; d) l’eventuale termine di prescrizione può decorrere anche prima della corretta trasposizione della direttiva nell’ordinamento nazionale, se il danno, anche solo in parte (è questo il significato del riferimento ai ‘primi effetti lesivi’ contenuto nella sentenza nella sentenza D.S.) per questo soggetto si è verificato anteriormente; e) l’applicazione del termine di prescrizione decennale, della quale sopra si è data giustificazione, ove sia apprezzata sotto il profilo della prevedibilità da parte dei soggetti interessati, appare prevedibile, tenuto conto che il termine di prescrizione decennale (di cui all’art. 2946 c.c.) è quello generale e certamente più favorevole rispetto ai termini speciali, più brevi. Risponde, quindi, al principio comunitario di effettività’.
p.7.2. Dev’essere, poi, rilevato che questa Corte, con la sentenza n. 17868 del 2011, deliberata sempre nella udienza del 18 aprile 2011 e depositata il 31 agosto successivo, ha precisato, altresì, che la ricostruzione dello stato della giurisprudenza comunitaria fatta dalle citate sentenze gemelle risultava conforme a quanto, successivamente al loro deposito, aveva deliberato la Corte di Giustizia con la sentenza 19 maggio 2011, resa sulla causa C-452, su un rinvio pregiudiziale operato dal Tribunale di Firenze (e considerato dalla dette sentenze, le quali avevano escluso, invece, ch’esso fosse necessario ed erano state, peraltro, depositate senza che le parti avessero fatto presente l’imminenza della discussione davanti a quella Corte il 19 maggio 2011 ed in situazione nella quale nel sito della Corte di Giustizia non risultava all’epoca della camera di consiglio e del deposito delle decisioni la calendarizzazione dell’udienza).
A sua volta Cass. n. 25993 del 2011 ha precisato, scrutinando eccezione della difesa erariale in analoga controversia che è infondato l’assunto (adombrato anche da parte della dottrina) secondo cui la citata sentenza comunitaria avrebbe contraddetto le argomentazioni della giurisprudenza inaugurata dalle sentenze gemelle: la sentenza comunitaria si è occupata, infatti, solo di ribadire che cosa la giurisprudenza comunitaria dispone in punto di obblighi del legislatore degli Stati membri in punto di applicazione di regime prescrizionali o decadenziali che interferiscano sulle pretese basate sul diritto comunitario rimasto inadempiuto. E lo ha fatto ribadendo i risultati esegetici cui erano pervenute le sentenze gemelle.
Queste ultime (sono sempre considerazioni di Cass. n. 25993 del 2011) hanno, poi, ricostruito il regime prescrizionale della pretesa risarcitoria sulla base del diritto interno, sul quale la giurisprudenza comunitaria anche nell’ultima decisione non si è espressa in alcun modo, esulando il problema dalla sua giurisdizione, che pertiene – com’è noto – solo alla individuazione della compatibilità del diritto interno con l’ordinamento comunitario. Ed è palese che nella specie la ricostruzione operata dalle sentenze gemelle del regime interno di prescrizione dell’azione come individuata dalle Sezioni Unite non si pone in alcun modo in contrasto con il diritto comunitario, del quale è anzi diretta a preservare l’osservanza da parte del nostro ordinamento ed a garantirne massimamente l’effettività.
Sempre la sentenza da ultimo citata ha discusso l’ulteriore eccezione della difesa erariale che adombrava un contrasto della qualificazione dell’azione – operata dalle Sezioni Unite e ribadita, anche con gli argomenti esplicativi sopra ricordati, dalle sentenze gemelle – con una in realtà inesistente qualificazione in termini di illecito ai sensi dell’art. 2043 c.c. che sarebbe stata operata dalla giurisprudenza comunitaria. L’assunto è stato considerato privo di fondamento sul rilievo che non si comprende come il riferimento delle detta giurisprudenza all’obbligo statuale di risarcimento del danno possa essere inteso in ambito di ordinamento interno come una scelta a favore di una certa qualificazione normativa, quale quella della lex aquilia, piuttosto che di un’altra. L’individuazione della collocazione nel diritto interno dell’azione risarcitoria compete, infatti, ai giudici di diritto interno sulla base della normativa vigente in mancanza di apposito intervento del legislatore oppure appunto al legislatore, che bene può disciplinare specificamene l’azione. Dopo di che il problema, in termini di rispetto del diritto comunitario, è solo quello del se la disciplina ritenuta applicabile dal giudice interno o individuata dal legislatore consenta il ristoro dell’obbligo risarcitorio previsto dal diritto comunitario in nuce con la sentenza F. e, come adombrato dalle sentenze gemelle, in realtà definito soltanto dalla sentenza sul caso (OMISSIS).
Per tali ragioni la citata Cass. n. 25993 del 2011 ritenne priva di fondamento la richiesta di reinvestire le Sezioni Unite della questione (e ciò non senza avere osservato che la richiesta era disciplinata dagli artt. 374 e 376 c.p.c. ed andava rivolta al Primo Presidente).
Ancora meno fondata venne ritenuta la richiesta stessa in quanto motivata sul rilievo (non dissimile da quello che sostiene la prima censura del secondo motivo dell’odierno ricorso principale) che sentenze del Tribunale di Roma non si sarebbero conformate ‘sulla base di un approfondito excursus della giurisprudenza comunitaria’ alla giurisprudenza inaugurata dalle sentenze gemelle: al riguardo questa Sezione ritenne – sempre nella citata sentenza – sufficiente rimandare alla lettura dell’art. 65 dell’Ordinamento Giudiziario.
In fine non si mancò di rilevare che le sentenze gemelle si erano fatte carico della giurisprudenza delle sezioni Semplici successiva alla sentenza delle Sezioni Unite.
Il richiamo di tutte queste considerazioni già svolte dalla giurisprudenza di questa Sezione è di per sè sufficiente a giustificare la prima censura del secondo motivo del ricorso principale per come era stata prospettata in esso, salvo quanto si considererà successivamente in relazione alla deduzione di un jus superveniens, svolta dai ricorrenti nella loro memoria.
p.7.3. Prima di passare ad esaminare il relativo problema, è necessario rilevare che il problema della individuazione del dies a quo del termine prescrizionale dell’azione qualificata nei sopra ricordati termini nelle citate sentenze gemelle era stato risolto da esse con l’affermazione del seguente principio di diritto: ‘il diritto al risarcimento del danno da inadempimento della direttiva n. 82/76/CEE, riassuntiva delle direttive n. 75/362/CEE e n. 75/363/CEE, insorto a favore dei soggetti che avevano seguito corsi di specializzazione medica negli anni dal 1 gennaio 1983 all’anno accademico 1990-1991 in condizioni tali che se detta direttiva fosse stata adempiuta avrebbero acquisito i diritti da essa previsti, si prescrive nel termine di dieci anni decorrente dal 27 ottobre 1999, data di entrata in vigore della L. n. 370 del 1999, art. 11’.
Successivamente, questa Corte con la citata sentenza n. 25993 del 2011 ed anche con quella di poco anteriore n. 24816 del 2011, a precisazione del riportato principio ha, altresì, chiarito che esso è applicabile anche agli specializzandi che, avendo iniziato il corso di specializzazione in anni fino all’anno accademico 1990-1991 (come accadde per la M.), non potevano vedere la loro situazione disciplinata dal D.Lgs. n. 257 del 1991, ancorchè parte del corso fosse stato seguito sotto la sua vigenza. Infatti, ai sensi dell’art. 8, comma 2, di tale D.Lgs. le disposizioni di cui all’art. 6 di esso, che aveva attuato tardivamente il diritto comunitario in parte qua le disposizioni del decreto si applicavano a decorrere dall’anno accademico 1991-92, il che comportava che esse fossero applicabili soltanto agli specializzandi che avessero iniziato il corso di specializzazione a decorrere dall’anno accademico de quo e non anche, sia pure per il periodo successivo all’entrata in vigore del D.Lgs., a coloro che avessero iniziato la specializzazione prima di quell’anno accademico e non l’avessero ancora terminata. In pratica, si è osservato nelle dette sentenza si è statuito che la situazione di costoro rimase priva di disciplina statuale attuativa del diritto comunitario non diversamente da quella degli specializzandi che avessero frequentato corsi terminati nell’anno accademico 1990-1991.
Si è, quindi, riespresso il principio di diritto che viene in rilievo riguardo all’annosa vicenda degli specializzando in questi termini, comprensivi anche del caso degli specializzandi cd. ‘a cavallo’, cioè che, avendo iniziato la specializzazione prima del’intervento del D.Lgs. n. 257 del 1991, l’avessero terminata quando esso era già entrato in vigore: ‘il diritto al risarcimento del danno da inadempimento della direttiva n. 82/76/CEE, riassuntiva delle direttive n. 75/362/CEE e n. 75/363/CEE, insorto a favore dei soggetti che avevano seguito corsi di specializzazione medica iniziati negli anni dal 1 gennaio 1983 all’anno accademico 1990-1991 in condizioni tali che se detta direttiva fosse stata adempiuta avrebbero acquisito i diritti da essa previsti, si prescrive nel termine di dieci anni decorrente dal 27 ottobre 1999, data di entrata in vigore della L. n. 370 del 1999, art. 11’.
p.7.4. L’applicazione di tale principio di diritto a questo punto comporta la palese fondatezza del motivo di ricorso incidentale, perchè la Corte d’Appello non avrebbe potuto considerare prescritta la pretesa per gli anni di corso anteriori a quello finale per ci l’ha riconosciuta, atteso che la prescrizione non decorreva dall’entrata in vigore del D.Lgs. n. 257 del 1991, bensì dal 27 ottobre 1999, di modo che lo stesso esercizio dell’azione si collocò ampiamente nel termine prescrizionale decennale da quella data decorrente.
p.7.5. Tuttavia, a questo punto il Collegio deve farsi carico, sia ai fini dello scrutinio della prima censura del secondo motivo del ricorso principale, sia del motivo di ricorso incidentale, del rilievo – svolto nella memoria dalla difesa erariale (e del quale si sarebbe dovuta comunque far carico d’ufficio, trattandosi di quaestio iuris) – di una sopravvenienza normativa rispetto alla proposizione del ricorso principale e del ricorso incidentale e valutare se essa incida sulla validità del principio di diritto sopra ricordato in quanto applicabile alla vicenda oggetto della controversia.
Con la L. 12 novembre 2011, n. 183, art. 4, comma 43, (Legge di stabilità 2012, ex legge finanziaria), approvata in via definitiva dal Parlamento il 12 novembre 2011 e pubblicata in Gazzetta Ufficiale 14 novembre 2011, n. 265, infatti, è stato disposto che ‘La prescrizione del diritto al risarcimento del danno derivante da mancato recepimento nell’ordinamento dello Stato di direttive o altri provvedimenti obbligatori comunitari soggiace, in ogni caso, alla disciplina di cui all’art. 2947 c.c. e decorre dalla data in cui il fatto, dal quale sarebbero derivati i diritti se la direttiva fosse stata tempestivamente recepita, si è effettivamente verificato’.
Ai sensi dell’art. 36 della stessa legge la norma è entrata in vigore il 1 gennaio 2012.
In sentenze pubblicate successivamente alla pubblicazione della legge e, quindi, all’entrata nell’ordinamento come mera disposizione della norma, questa Sezione ha ritenuto implicitamente inopportuno darsi carico della sopravvenienza – previa riconvocazione dei Collegi – proprio perchè essa non era vigente.
Sopravvenuta la sua vigenza occorre ora farsene carico.
p.7.5.1. Il Collegio ritiene che essa, operando solo per l’avvenire, secondo il criterio generale fissato dall’art. 12 preleggi, e, quindi potendo spiegare la sua efficacia rispetto ai fatti verifica tisi successivamente alla sua entrata in vigore, risulta irrilevante nel presente giudizio, come nei giudizi similari. Infatti, essendo il suo oggetto di disciplina la regolamentazione della prescrizione del diritto al risarcimento del danno, derivante da mancato recepimento di normative comunitarie cogenti e dal verificarsi in capo ad un soggetto di un fatto che, se fosse stata attuata la direttiva, avrebbe dato al soggetto il diritto da essa previsto, la norma potrà disciplinare soltanto la prescrizione di diritti di tal genere insorti successivamente alla sua entrata in vigore e, quindi, derivanti da fattispecie di mancato recepimento verificatcsi dopo di essa e non da fattispecie di mancato recepimento verificatesi anteriormente. Con la conseguenza che non può regolare in via sopravvenuta il diritto al risarcimento del danno da mancato recepimento, oggetto del presente giudizio, posto che esso concerne un mancato recepimento verificatosi ben prima.
Non v’è alcuna espressione nella norma, d’altro canto, che consenta di ritenere che l’oggetto di disciplina riguardi anche termini di prescrizione di diritti del genere indicato già sorti ed ancora non consumati, o per mancata decorrenza del termine di prescrizione originario o, nel caso di interruzione di esso o di quelli successivi, per pendenza di un termine successivo, nonchè termini di prescrizione non consumati alla stregua della disciplina applicabile precedentemente (come nella fattispecie) e che, invece, risulterebbero consumati alla stregua della nuova.
Sotto il primo aspetto la norma non reca alcun indice che evidenzi la sua direzione alla disciplina dei termini di prescrizione originali successivi ancora in corso, perchè la norma avrebbe dovuto disporre – se del caso in aggiunta alla sua previsione, che è diretta ad individuare la prescrizione e, quindi, il decorso del tempo dalla nascita – riguardo ai termini di prescrizione pendenti ed all’uopo avrebbe dovuto contenere elementi testuali idonei ad evidenziare l’assunzione come oggetto di disciplina anche di essi.
Sotto il secondo aspetto, che è quello che rileverebbe nel caso in esame, come nelle vicende similari, la disposizione avrebbe dovuto contenere espressioni dirette ad evidenziare il suo carattere espressamente retroattivo oppure auto qualificarsi, expressis verbis o in via indiretta attraverso indici testuali all’uopo idonei, come interpretativa.
Ed in questo caso, si sarebbe, peraltro, posto il problema della costituzionalità di una individuazione della prescrizione applicabile addirittura successiva al decorso del termine di prescrizione originario delle situazioni di cui trattasi, ormai compiutosi il 27 ottobre 2009 secondo il sistema normativo precedente, pur evidenziato all’esito di una complessa vicenda giurisprudenziale (e, peraltro, quoad durata del termine da una pronuncia delle Sezioni Unite risalente ad oltre due anni fa).
p.7.5.2. E’ da avvertire che un indice linguistico idoneo ad evidenziare la natura retroattiva o interpretativa (e, quindi, parimenti retroattiva, com’è nella natura della norma effettivamente interpretativa) non può essere ravvisato nell’uso dell’espressione ‘in ogni caso’, perchè essa non è nè idonea ad evidenziare una volontà legislativa derogatoria del principio per cui la legge provvede per l’avvenire, se il legislatore non dispone diversamente, nè tanto meno una volontà interpretativa.
Sotto il primo aspetto l’espressione non partecipa alla funzione di individuare l’oggetto di disciplina della norma quoad tempus, essendo esso definito dall’espressione ‘La prescrizione del diritto al risarcimento del danno derivante da mancato recepimento nell’ordinamento dello Stato di direttive o altri provvedimenti obbligatori comunitari’. Detta espressione, invece, essendo inserita dopo il verbo che esprime la vis normativa della soggezione all’art. 2947 c.c. ed essendo il riferimento a tale soggezione, in ragione del riferimento di essa all’azione di risarcimento del danno da fatto illecito, necessariamente ad una disposizione che ha come oggetto di disciplina un’azione di tale natura, è diretta a suggerire all’interprete che la soggezione ha luogo indipendentemente dalla qualificazione del relativo diritto negli stessi termini.
p.7.5.3. Va ancora rimarcato che le situazioni come quelle di cui è processo, riguardo alle quali il diritto è stato già esercitato con l’azione in giudizio, al momento dell’entrata in vigore della legge, non sono situazioni rispetto alle quali il diritto debba essere esercitato, ma situazioni nelle quali il diritto lo è già stato ed essendosi verificato l’effetto interruttivo cd. permanente (scilicet sospensione) del termine prescrizionale risultante dalla legge del momento di introduzione del giudizio, il termine di prescrizione non correva al 1 dicembre 2012 e nemmeno doveva e poteva iniziare, atteso che era interrotto. Onde, sarebbe occorsa un’espressione linguistica idonea a rivelare l’intentio legis di disciplinare anche tali situazioni in via necessariamente retroattiva, cioè sovrapponendo il nuovo termine a quello a suo tempo interrotto dalla domanda giudiziale e risultante dalla disciplina legislativa pregressa.
Per mera completezza ed in ipotesi denegata, se anche sorgesse il dubbio che l’espressione sia polisenso, cioè si presti ad assumere sia questo significato sia quello di implicare la retroattività o il carattere interpretativo della norma, l’interprete dovrebbe concludere a favore della prima opzione, perchè il carattere retroattivo o interpretativo di una norma non tollera ambiguità.
p.7.5.4. Va ancora aggiunto, sempre per completezza, un ulteriore rilievo.
Qualora la materia del mutamento da parte del legislatore del termine di prescrizione di un determinato diritto si reputasse soggetta, in assenza di contraria volontà del legislatore, da un principio generale dell’ordinamento che si volesse ravvisare esistente sulla base dell’art. 12 preleggi, comma 2 e che si individuasse nella norma di diritto transitorio temporibus illis introdotta dal legislatore all’atto dell’entrata in vigore del codice civile, cioè l’art. 252 disp. att. e trans. c.c. (come parrebbero suggerire Corte cost. n. 128 del 1996 e Cass. sez. un. n. 6173 del 2008), le conclusioni raggiunte nel senso dell’ininfluenza della norma sopravvenuta nel presente giudizio non muterebbero.
Infatti, quella norma lasciò immutati i termini di prescrizione in relazione ad atti di esercizio di diritti avvenuti secondo la previgente disciplina e si preoccupò soltanto di somministrare un criterio per gli atti di esercizio di diritti sorti anteriormente all’entrata in vigore del codice ma non ancora esercitati, imponendo che il termine per il loro esercizio, se stabilito in misura più breve rispetto al passato ed eventualmente ancora in corso, decorresse dalle date di entrata in vigore delle varie parti del codice.
Applicando il criterio al caso di specie si avrebbe allora che la nuova norma sarebbe applicabile ad atti di esercizio di diritti come quelli oggetto di causa che avessero determinato l’interruzione del corso della prescrizione nei termini ricostruiti dalla giurisprudenza di questa Corte e che ancora, in situazione di mancato decorso del termine decennale di prescrizione, fossero esercitabili dopo la sua entrata in vigore. In questo caso il termine quinquennale di cui all’art. 2947, comma 1 decorrerebbe dal 1 gennaio 2012.
E’ palese che non si tratta e non si potrebbe trattare delle situazioni oggetto di esercizio in giudizio in fieri, come quelle di cui è processo, riguardo alle quali il termine operante secondo la disciplina anteriore è rimasto sospeso per l’effetto interruttivo permanente determinato dall’esercizio dell’azione giudiziale.
p.7.6. Giusta le svolte considerazioni la prima censura del secondo motivo del ricorso principale è, quindi, definitivamente, rigettata per l’assorbente ragione che l’ipotesi ricostruttiva del dies a quo della prescrizione proposta dalle amministrazioni ricorrenti nella loro memoria è infondata alla luce degli sviluppi della giurisprudenza di questa Corte a partire dalle sentenze gemelle. Per converso dev’essere accolto l’unico motivo di ricorso incidentale e la sentenza impugnata dev’essere, dunque, cassata con rinvio alla Corte d’Appello di Roma, in diversa sezione e comunque composizione, perchè giudichi dell’appello della M. escludendo la prescrizione per gli anni di corso per cui invece erroneamente l’ha ritenuta verificata.
p.8. Deve procedersi a questo punto all’esame della seconda censura del secondo motivo del ricorso principale, che riguarda la misura del risarcimento dovuto alla M. per l’unico anno di corso per cui la Corte territoriale non aveva ritenuto decorsa la prescrizione.
p.8.1. Detta seconda censura è fondata.
Le ragioni di fondatezza sono le seguenti.
Va rilevato che, con riferimento a una fattispecie nella quale il giudice si merito aveva ritenuto direttamente estensibile la disciplina della L. n. 370 del 1999 agli specializzandi da essa non contemplati, venutisi a trovare in condizioni tali che se le note direttive fossero state adempiute, avrebbero potuto beneficiare del riconoscimento di una remunerazione per lo svolgimento del corso di specializzazione in condizioni conformi a quanto imposto dal diritto comunitario, questa Sezione ha già avuto modo di affermare il seguente principio di diritto: ‘In tema di corresponsione di borse di studio agli specializzandi medici ammessi alle scuole negli anni 1983- 1991, la L. 19 ottobre 1999, n. 370, art. 11, pone delle condizioni dettagliate per il riconoscimento del relativo diritto, coerenti con le corrispondenti disposizioni delle direttive n. 75/362/CEE e n. 82/76/CEE, così da doversi applicare retroattivamente a tutti coloro che si sono trovati nella situazione contemplata dal medesimo art. 11, in quanto la più idonea al raggiungimento dello scopo di attuare le citate direttive a far tempo dalla scadenza del termine dato allo Stato per la relativa trasposizione (nella specie, 31 dicembre 1982).
Non trova, invece, giustificazione, alla luce del diritto comunitario, la limitazione del riconoscimento operata dallo stesso art. 11 in favore dei destinatari delle sentenze passate in giudicato emesse dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sicchè, sotto questo specifico profilo, la disciplina è disapplicabile, in quanto essa subordina il riconoscimento, in ambito interno, di un diritto attribuito ai singoli da direttive comunitarie a condizioni (quella di aver adito l’autorità giudiziaria ed aver ottenuto una sentenza favorevole addirittura ancor prima dell’emanazione della legge di trasposizione) non contemplate da tali direttive’ (Cass. n. 17682 del 2011).
Successivamente, sempre questa Sezione, scrutinando questa volta un ricorso che si innestava su uno svolgimento del giudizio di merito che aveva visto atteggiarsi la pretesa dei medici specializzandi sub specie risarcitoria, ha affermato che ‘In tema di risarcimento dei danni, per la mancata tempestiva trasposizione delle direttive comunitarie 75/362/CEE e 82/76/CEE (in materia di adeguata remunerazione della formazione dei medici specializzandi), in favore dei medici frequentanti le scuole di specializzazione in epoca anteriore all’anno 1991, la relativa liquidazione non può che avvenire sul piano equitativo, secondo canoni di parità di trattamento per situazioni analoghe, dovendo utilizzarsi come parametro di riferimento le indicazioni contenute nella legge 19 ottobre 1999, n. 370, con cui lo Stato italiano ha proceduto ad un sostanziale atto di adempimento parziale soggettivo nei confronti di tutte le categorie astratte in relazione alle quali, dopo il 31 dicembre 1982, si erano potute verificare le condizioni fattuali idonee all’acquisizione dei diritti previsti dalle citate direttive comunitarie e che non risultano considerate nel D.Lgs. 8 agosto 1991, n. 257’ (Cass. n. 23275 del 2011).
Come si vede il punto di approdo della individuazione del criterio di liquidazione del danno nell’uno e nell’altro caso è stato il medesimo, cioè il riferimento agli importi indicati dalla L. n. 370 del 1999.
p.8.2.1. A questo approdo il Collegio intende dare continuità e farne affermazione in linea generale sulla base dei seguenti rilievi, che si riferiscono alla pretesa risarcitoria che individui il danno non solo nella mancata consecuzione della adeguata remunerazione, ma anche sotto altri possibili profili inerenti l’inidoneità del diploma sul piano comunitario.
Punto di partenza dev’essere la constatazione che, giusta la costruzione della fattispecie risarcitoria nei sensi indicati dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 9147 del 2009, il diritto al risarcimento spettante agli specializzandi in relazione alla remunerazione e agli altri vantaggi che avrebbero potuto conseguire, per il caso che la normativa comunitaria fosse stata adempiuta e fosse stata loro assicurata la possibilità di seguire corsi conformi ad essa, ha natura di credito di valore, sia pure originante da responsabilità contrattuale (nel senso specificato dalle sentenze gemelle).
La giurisprudenza di questa Sezione nelle sentenze gemelle ha, come si è visto, riconosciuto che fino all’emanazione della L. n. 370 del 1999 l’obbligo risarcitorio, pur insorto con riguardo alle posizioni dei singoli che si erano venuti a trovare nella condizione di fatto che avrebbe dato diritto al beneficio ricollegato all’attuazione delle direttive, si era connotato come un obbligo di natura permanente fino al momento dell’entrata in vigore della 1. n. 370 del 1999, con la conseguenza che il corso della prescrizione non era iniziato prima di quel momento.
In ordine al momento di insorgenza dell’obbligo risarei torio, sempre le dette sentenze avevano sottolineato che esso si doveva rinvenire, peraltro, non già con riferimento al momento di verificazione della situazione di fatto che a direttive adempiute avrebbe giustificato la corresponsione della remunerazione e la consecuzione degli altri vantaggi, bensì solo dal momento della sopravvenienza della nota sentenza comunitaria sul caso F..
Le sentenze gemelle, infatti, avevano sottolineato quanto segue: ‘il dictum della sentenza (poi ribadito qualche anno dopo dalla sentenza (OMISSIS)), attesa l’efficacia vincolante nell’ordinamento interno della decisioni della Corte di Giustizia in guisa sostanziale di una vera e propria fonte del diritto oggettivo, ha avuto l’efficacia di introdurre nell’ordinamento italiano (come in buona sostanza hanno affermato le Sezioni Unite) una particolare fonte di obbligazioni risarcitorie, il cui fatto costitutivo è l’inadempienza ad una direttiva di quel contenuto. Ne deriva che solo dalla pubblicazione della sentenza F. le situazioni fattuali degli specializzandi che avevano conseguito il diploma dopo il 31 dicembre 1982 a seguito di un corso che, in base alle note direttive avrebbe giustificato l’attribuzione dei diritti da esse previste, sono state giuridificate nel nostro ordinamento come idonee a giustificare l’obbligo risarcitorio. L’assunto, naturalmente, vale per qualsiasi ipotesi di inadempienza a direttive di contenuto sufficientemente specifico nell’attribuzione di diritti da giustificare l’obbligo risarcitorio, verificatasi anteriormente alla sentenza F.. (…) Potrebbe addirittura sostenersi che, essendosi la giurisprudenza comunitaria definitivamente assestata, dopo l’irruzione della sentenza F. nei suoi esatti termini soltanto con la sentenza (OMISSIS), come non manca di rilevare la dottrina quando deve individuare i caratteri dell’obbligo risarcitorio, addirittura solo dalla data di quella sentenza l’obbligo sia insorto nell’ordinamento italiano (…). Il diritto degli specializzandi, infatti, si potrebbe dire sorto addirittura soltanto dall’ottobre del 1996’.
Ora, sopravenuta la L. n. 370 del 1999, si è verificata nell’ordinamento, secondo la giurisprudenza inaugurata dalle sentenze gemelle, una situazione nella quale la permanenza dell’obbligo risarcitorio de quo è venuta a cessare, perchè come si rilevò in esse fu chiaro che lo Stato, riconoscendo un risarcimento a taluni specializzandi appartenenti alle categorie riguardo alle quali non aveva operato la tardiva attuazione solo de futuro di cui al D.Lgs. n. 257 del 1991, palesò che non vi sarebbe stato più un adempimento spontaneo. Di modo che l’obbligo risarcitorio cessò di essere qualificabile come permanente e divenne un obbligo risarcitorio ormai nella sostanza definitivamente inadempiuto.
Tuttavia la L. n. 370 del 1999 si caratterizzò anche come un intervento del legislatore italiano che per i soggetti contemplati, sulla sola condizione dell’essere beneficiari di taluni giudicati, procedete alla quantificazione del dovuto per l’obbligo risarcitorio.
Poichè tale obbligo risarcitorio era riferibile anche ai soggetti non contemplati e la relativa quantificazione è avvenuta con un atto legislativo, la posizione degli specializzandi rimasti esclusi, in relazione all’operare del principio di eguaglianza sul piano del diritto interno ed a maggior ragione rispetto alla posizione dello Stato Italiano di fronte all’obbligo comunitario, non poteva che meritare lo stesso trattamento. Si deve allora considerare che la quantificazione assunse anche nei confronti degli specializzandi non contemplati il valore di una sorta di aestimatio dell’obbligo risarcitorio fatta spontaneamente dallo Stato.
Tale aestimatio risultò effettuata dallo Stato quale soggetto obbligato, sul piano dell’ordinamento comunitario, a rimediare alla situazione di inadempimento del diritto comunitario nell’esercizio della sua attività legislativa e, quindi, con necessari riflessi sul piano dell’ordinamento interno riguardo al diritto al risarcimento dei singoli.
Si deve allora ritenere che, a seguito della sopravvenienza della L. n. 370 del 1999, stante la identità di posizione degli specializzandi non contemplati rispetto a quelli contemplati dalla legge (identità che, naturalmente va apprezzata con riguardo all’atteggiasi della loro posizione non già secondo l’ordinamento interno e, quindi, in relazione all’essere essi beneficiari di giudicati amministrativi, bensì in relazione all’ordinamento comunitario), si verificò nell’ordinamento interno una situazione per cui il ‘valore’ dell’obbligo risarcitorio risultò apprezzato dallo Stato italiano nella misura prevista dall’art. 11 della legge stessa. Tale situazione determinava che agli specializzandi non contemplati, i quali erano ormai messi nella condizione di doversi attivare nell’esercizio della pretesa risarcitoria per scongiurare la prescrizione, fosse palesata una precisa quantificazione dell’obbligo risarcitorio da parte dello Stato. Quantificazione che l’ultima proposizione del comma 1 dell’art. diceva comprensiva di interessi e rivalutazione, così rispettando la natura di valore del credito nel procedimento che condusse a una sorta di auto-aestimatio dello Stato legislatore.
Ne deriva che, emergendo una precisa quantificazione del valore dell’obbligo risarcitorio, ad essa si doveva e si deve commisurare la pretesa degli specializzandi.
E ciò non tanto sulla base di considerazioni equitative, bensì quale necessario riflesso della facoltà dello Stato di individuare il contenuto economico dell’obbligo risarei torio sul piano dell’ordinamento comunitario.
Infatti, la sentenza della Corte di Giustizia sul caso (OMISSIS) ebbe a precisare che ‘in mancanza di norme comunitarie in materia (di risarcimento del danno da inadempimento di direttive non self-executing), spetta all’ordinamento giuridico di interno di ciascuno stato membro fissare i criteri che consentono di determinare l’entità del risarcimento, fermo restando che essi non possono essere meno favorevoli di quelli che riguardano reclami analoghi fondati sul diritto interno e che non possono in nessun caso essere tali da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile il risarcimento’.
Il che giustifica che, in relazione al noto inadempimento, spettasse allo Stato di determinare l’entità del risarcimento, naturalmente in modo da non renderlo apparente.
E gli importi riconosciuti dalla citata legge non potevano essere riconosciuti tali, tenuto conto della oggettiva risalenza delle situazioni dei soggetti vittima dell’inadempimento.
Tanto comporta che, in accoglimento della seconda censura del secondo motivo, la sentenza impugnata debba essere cassata con rinvio nel punto in cui ha liquidato il danno per la parte di domanda della M. riconosciuta fondata parametrandolo alle somme di cui al D.Lgs. n. 257 del 1991.
E’ appena il caso di rilevare che la posizione degli specializzandi rimasti esclusi dal D.Lgs. n. 257 del 1991 in alcun modo poteva essere assimilata a quella degli specializzandi da esso contemplati, per l’assorbente ragione che detto D.Lgs., non solo operava solo in relazione a situazioni future, cioè per coloro che avessero iniziato il corso di specializzazione nell’anno accademico 1991-1992, ma, soprattutto, riguardava soggetti che frequentavano corsi oramai organizzati in conformità a quanto imposto dalla normativa comunitaria, là dove, invece, i corsi frequentati o iniziati anteriormente all’entrata in vigore della disciplina del D.Lgs. erano organizzati secondo il sistema previgente, non conforme al diritto comunitario, il che aveva integrato la situazione di inadempienza statuale.
Il ragionamento fatto sopra a proposito della L. n. 370 del 1999 circa il valore di aestimatio sotteso alla quantificazione da essa fatta dell’obbligo risarcitorio non potrebbe, dunque, in alcun modo essere fatto per quanto concerne gli importi di cui al D.Lgs. ed è per questo che non possono avere fondamento i tentativi di utilizzarla come parametro di determinazione del quantum del danno.
Si deve escludere, in particolare che applicare il trattamento di cui alla L. n. 370 del 1999 rispetto al trattamento di cui al D.Lgs. n. 257 del 1991 possa rappresentare un criterio meno favorevole (alla stregua della citata sentenza comunitaria) rispetto a casi analoghi, posto che la situazione degli specializzandi che seguirono i corsi cui non era applicabile il D.Lgs. n. 257 del 1991 non era analoga a quella degli specializzandi che li seguirono.
In sede di rinvio la Corte d’Appello di Roma provvederà, pertanto, a liquidare il risarcimento del danno sulla base del parametro della L. n. 370 del 1999.
p.8.2.2. Tale parametro, naturalmente, dovrà essere considerato anche ai fini della liquidazione del danno per gli anni di perfezionamento riguardo ai quali la domanda era stata rigettata ed è ora da riesaminare a seguito dell’accoglimento del motivo del ricorso incidentale.
p.9. Il terzo motivo a questo punto resta assorbito.
Il Collegio, atteso che nella sua illustrazione si lamentava anche che i presupposti di cui al D.Lgs. n. 257 del 1991 non ricorressero con riferimento al corso seguito dalla M., ritiene opportuno, per completezza, richiamare in questa sede Cass. nn. 24816 del 2011 e 23577 del 2011 con riferimento alla individuazione del danno evento oggetto dell’obbligo risarei torio: ciò in vista di scongiurare eventuali questioni che nell’applicazione del parametro di cui alla L. n. 370 del 1999 dovessero insorgere, se consentite dai limiti del giudizio di rinvio, con riferimento alle modalità di concreto svolgimento del corso di specializzazione seguito dalla M..
p.9.1. In particolare, nella sentenza n. 23577 del 2011 sono state enunciate, all’espresso scopo di individuare ‘quello che le Sezioni Unite hanno riconosciuto come danno originante da una responsabilità contrattuale (nel senso precisato dalle citate sentenze ‘gemelle’ di questa Sezione) per inadempimento dell’obbligazione ex lege dello Stato di adempiere le direttive comunitarie sufficientemente specifiche – come nella specie – da individuare una posizione di diritto dei singoli’, le seguenti considerazioni, che si riproducono testualmente:
‘In proposito è necessario precisare quanto segue:
a) il danno del singolo che lo Stato è tenuto a risarcire ha come fatto costitutivo la sussumibilità della sua posizione nell’ambito di quelle riguardo alle quali doveva avvenire l’adempimento delle direttive comunitarie di cui trattasi;
b) le direttive di cui trattasi e segnatamente quella cd. di coordinamento, cioè la direttiva 75/363/CEE, come modificata dalla direttiva 82/76/CEE nei suoi articoli 2, n. 1 e 3, corredati del relativo allegato, imponevano allo Stato Italiano, in relazione alle specializzazioni contemplate nell’elenco dell’art. 5, n. 2 e 7, n. 2 della direttiva cd. di riconoscimento (direttiva 75/362/CEE) – rispettivamente concernenti le specializzazioni che erano comuni a tutti gli Stati membri e quelle comuni a due o più fra di essi – di assicurare lo svolgimento del corso di specializzazione secondo quanto previsto in detti artt. 2, n. 1 e 3 e nel relativo allegato, che constava di un punto 1, concernente la formazione a tempo pieno e di un punto 2, riguardante la formazione a tempo parziale;
c) i corsi di specializzazione ricadenti nei citati artt. 5, n. 2 e 7 n. 2, a seguito della scadenza del termine di adempimento delle direttive (31 dicembre 1982) potevano, dunque, essere conformi al diritto comunitario soltanto se organizzati in uno dei due modi indicati nell’allegato;
d) ne discende che i medici iscritti ai corsi di specializzazione dall’anno 1983-84, la cui specializzazione ricadeva negli elenchi di cui a quelle norme, non essendo state le direttive adempiute, si vennero a trovare tutti, per il sol fatto della frequenza dei corsi, in una situazione nella quale venivano disconosciuti i diritti che loro sarebbero spettati per effetto dell’adempimento statuale e, quindi, in una posizione tale da risentire il danno derivante dalla loro mancata acquisizione;
e) i diritti disconosciuti erano rappresentati, sia dal non poter conseguire il diploma in modo certificato ai fini comunitari (e, quindi, in modo da poterlo utilizzare in ambito comunitario fuori dall’Italia), sia – per quello che qui interessa – dalla negazione dell’adeguata remunerazione, prevista tanto per il caso di formazione a tempo pieno, quanto per il caso di formazione a tempo parziale, rispettivamente dall’ultimo inciso del comma 2 del punto 1 e dal comma 3 del punto 2 dell’allegato;
f) la negazione di tali diritti per l’inadempimento statuale ha determinato l’obbligo risarcitorio contrattuale ex lege dello Stato Italiano;
g) tale negazione si configura come danno evento conseguente all’inadempimento delle direttive, nel senso che si tratta di una perdita sofferta dagli specializzandi, i quali, se l’adempimento vi fosse stato avrebbero potuto seguire i corsi di specializzazione organizzati nei termini voluti dal diritto comunitario e conseguire i suddetti diritti;
h) è da tale evento dannoso, del quale lo Stato Italiano è tenuto a rispondere a prescindere da colpa (come affermarono le Sezioni Unite nella sentenza n. 9147 del 2009), che da luogo all’obbligo risarcitorio di natura contrattuale (nel senso indicato dalle sentenze ‘gemelle’).
p.6.2. Ora, rimanendo sul piano della lesione del diritto alla consecuzione dell’adeguata remunerazione, lo specializzando che azionava l’obbligo risarcitorio doveva dimostrare esclusivamente di avere frequentato – con iscrizione collocantesi a far tempo dall’anno accademico 1983 -1984 fino a quello 1990-1991 – un corso di specializzazione comune a tutti gli Stati membri e, quindi, rientrante nell’elenco di cui al citato art. 5, n. 2, o ad almeno due o più fra essi e, quindi, rientrante nell’elenco di cui al citato art. 7, n. 2. Poichè la frequenza di tali corsi in mancanza dell’adeguamento alle direttive si concretava nella impossibilità di conseguire l’adeguata remunerazione, egli, nell’individuare e provare la pretesa risarcitoria conseguente all’inadempimento statuale non aveva altro onere che dimostrare detta frequenza. Essa, congiunta all’inadempimento statuale per come sopra indicato, integrava i fatti costituivi dell’obbligo risarcitorio dello Stato nei termini indicati dalla sentenza n. 9147 del 2009 e, quindi, della relativa domanda.
Viceversa, il concreto svolgimento del corso di specializzazione, secondo modalità di fatto corrispondenti al tempo pieno nei termini indicati dal comma 2 del punto 1 dell’allegato oppure secondo modalità corrispondenti al tempo ridotto nei termini indicati al comma 1 del punto 2, non poteva assurgere a fatto costitutivo dell’obbligo risarcitorio, per l’assorbente ragione che l’obbligo risarcitorio discende dal non avere provveduto lo Stato italiano ad organizzare in iure i corsi di specializzazione secondo l’una o l’altra modalità. Onde, non si comprende come ad una situazione di fatto, quella relativa allo svolgimento concreto del corso di specializzazione, si possa attribuire il valore di fatto costitutivo dell’obbligo risarcitorio e, quindi, del relativo diritto.
La frequenza in concreto di un corso di specializzazione con modalità non riconducibili nè a quelle a tempo pieno nè a quelle a tempo ridotto, d’altro canto, non potrebbe assumere nemmeno il valore di fatto impeditivo dell’insorgenza del diritto al risarcimento del danno, per l’assorbente ragione che essa di norma dipenderebbe da un fatto addebitabile allo Stato, il quale, in relazione al concreto corso di specializzazione di cui si tratti, non aveva assicurato lo svolgimento o secondo la modalità a tempo pieno o secondo la modalità a tempo parziale. Al riguardo va rilevato che fino all’entrata in vigore della riforma di cui alla L. 9 maggio 1989, n. 168 le università erano enti statali e successivamente competeva allo Stato legislatore dettare le regole interne di adeguamento alle note direttive. Si potrebbe semmai ipotizzare che, qualora lo svolgimento del corso di specializzazione fosse stato organizzato in concreto – secondo la legislazione vigente all’epoca – in modo tale da consentire allo specializzando di seguirlo o con modalità a tempo pieno o con modalità a tempo parziale o con modalità minori rispetto anche a quest’ultimo, l’avere lo specializzando scelto di seguirlo secondo la terza opzione concessa potrebbe assumere il carattere di fatto impeditivo dell’insorgenza del diritto al risarcimento.
Anche se occorrerebbe valutare che tale scelta sarebbe stata resa possibile proprio a cagione dell’inadempimento statuale all’obbligo di organizzare i corsi secondo le modalità a tempo pieno o parziale.
Poichè per tali corsi erano obbligatorie modalità organizzative a tempo pieno o a tempo parziale con adeguata remunerazione l’obbligo risarcitorio si ricollega, infatti, al non averle assicurate. Lo Stato risponde, cioè, proprio per non averle assicurate.
Ne deriva che allo specializzando attore che fa valere la pretesa all’adempimento dell’obbligo statuale ex lege di risarcire il danno da mancata attuazione delle direttive competeva e compete solo dimostrare di trovarsi in una situazione rispetto alla quale la direttiva doveva essere adempiuta e tale situazione, rappresentante il fatto costitutivo del danno da lui lamentato (perdita dei diritti che gli sarebbero spettati nel caso di adempimento della direttiva), inteso nel senso di cd. danno evento, è data dalla mera frequenza di un corso ricadente nei due elenchi.
Le concrete modalità di svolgimento del corso potrebbero, in realtà, venire in rilievo solo quali circostanze rilevanti ai fini della quantificazione del risarcimento del danno, nel senso che quest’ultimo non può essere riconosciuto nella stessa misura allo specializzando che frequentò un corso con modalità simili a quelle a tempo pieno e ad uno specializzando che lo frequentò con modalità simili a quelle tempo parziale o addirittura minori rispetto a queste ultime. Ma ciò solo se la scelta dell’una piuttosto che dell’altra opzione sia dipesa dallo specializzando, che, avendo possibilità di optare per l’una o per l’altra in relazione alla circostanza che il corso era organizzato con due modalità, abbia preferito l’opzione a tempo parziale anzichè quella a tempo pieno. Se invece il corso era organizzato solo con modalità in fatto corrispondenti al tempo parziale, la negazione della possibilità di scelta evidenzia che lo specializzando perse – in ragione dell’inadempimento statuale – il diritto alla frequenza del corso a tempo pieno e, quindi, le corrispondenti utilità, in primis la remunerazione adeguata al tempo pieno.
Le circostanze relative allo svolgimento in concreto del corso saranno, però, deducibili e dimostrabili al fine di determinare il danno risarcibile dallo Stato, tenuto conto che l’organizzazione del corso di specializzazione seguito dallo specializzando era all’epoca dipendente in astratto dallo stato della legislazione statuale non rispettosa del diritto comunitario ed in concreto dalla scelta seguita nell’organizzazione del corso dalla singola università.
p.6.3. Da quanto osservato consegue che il giudice di rinvio non potrà, come ha fatto la Corte d’appello nella sentenza impugnata – sia pure nella prospettiva della qualificazione dell’azione come diretta a rivendicare la diretta attribuzione dei benefici del D.Lgs. n. 257 del 1991 – addebitare al ricorrente di non avere provato le modalità di svolgimento del corso.’.
p.10. Il Collegio ritiene opportuno anche indicare al giudice di rinvio il criterio che dovrà seguire nel liquidare gli accessori sulle somme parametrate all’importo indicato dalla L. n. 370 del 1999, art. 11 che per ciascun anno di corso dovrà riconoscere in conto capitale sulla base della liquidazione in base allo stesso, giusta quanto affermato poco sopra in accoglimento della seconda censura del secondo motivo del ricorso principale e dell’accoglimento del ricorso incidentale.
Al riguardo va considerato che, per effetto della legge n. 370 del 1999, l’aestimatio dell’obbligo risarcitorio da parte del legislatore italiano si risolse in una attività di vera e propria autoliquidazione (consentita, come s’è visto, dato che lo Stato poteva nella sua qualità di legislatore disporre, dovendo rispettare solo esigenze di effettività rispetto all’ordinamento comunitario) del danno derivante dal suo inadempimento. Dal momento dell’entrata in vigore della legge si evidenziò, allora, una monetizzazione del danno derivante dall’inadempimento di quell’obbligo e si trattò di una monetizzazione correlata ad un inadempimento ormai definitivo di esso.
Ritiene il Collegio che tale monetizzazione, dal momento dell’entrata in vigore della legge, determinò la sostituzione all’obbligazione risarcitoria avente natura di debito di valore qual era stata quella dello Stato fino a quel momento, in mancanza di determinazione del suo ammontare, di un’obbligazione avente natura di debito di valuta, cioè avente ad oggetto diretto una somma di danaro.
Tale obbligazione aveva ad oggetto una somma di danaro liquida, ma non esigibile.
Ne consegue che essa era soggetta al regime dell’art. 1219 c.c. e, pertanto, per la produzione degli interessi e del diritto alla consecuzione del maggior danno di cui all’art. 1224 c.c., comma 2, occorreva un atto di messa in mora.
La Corte di rinvio, dovrà, dunque, riconoscere sulle somme dovute per ciascun anno, determinate alla stregua della L. n. 370 del 1999, art. 11 gli accessori soltanto dalla data dell’eventuale messa in mora o, in mancanza, dalla notificazione della domanda giudiziale.
Lo dovrà fare applicando il seguente principio di diritto: ‘Nel caso di ritardato adempimento di una obbligazione di valuta, il maggior danno di cui all’art. 1224 c.c., comma 2, può ritenersi esistente in via presuntiva in tutti i casi in cui, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali. Ricorrendo tale ipotesi, il risarcimento del maggior danno spetta a qualunque creditore, quale che ne sia la qualità soggettiva o l’attività svolta (e quindi tanto nel caso di imprenditore, quanto nel caso di pensionato, impiegato, ecc), fermo restando che se il creditore domanda, a titolo di risarcimento del maggior danno, una somma superiore a quella risultante dal suddetto saggio di rendimento dei titoli di Stato, avrà l’onere di provare l’esistenza e l’ammontare di tale pregiudizio, anche per via presuntiva; in particolare, ove il creditore abbia la qualità di imprenditore, avrà l’onere di dimostrare o di avere fatto ricorso al credito bancario sostenendone i relativi interessi passivi; ovvero – attraverso la produzione dei bilanci – quale fosse la produttività della propria impresa, per le somme in essa investite; il debitore, dal canto suo, avrà invece l’onere di dimostrare, anche attraverso presunzioni semplici, che il creditore, in caso di tempestivo adempimento, non avrebbe potuto impiegare il denaro dovutogli in forme di investimento che gli avrebbero garantito un rendimento superiore al saggio legale. Competerà, quindi, la rivalutazione monetaria per preservare il valore della somma indicata’ (Cass. sez. un. n. 19499 del 2008).
p.11. Al giudice di rinvio è rimesso di regolare le spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie per quanto di ragione il secondo motivo del ricorso principale. Rigetta il primo motivo. Dichiara assorbito il terzo.
Accoglie il ricorso incidentale. Cassa la sentenza impugnata in relazione e rinvia ad altra Sezione della Corte d’appello di Roma, che deciderà comunque in diversa composizione anche sulle spese del giudizio di cassazione.
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Studio Legale Avvocato Francesco Noto – Cosenza