Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione dirimono un contrasto sulla valenza penalistica della condotta spiegata da soggetti che, senza iscrizione all’albo dei commercialisti o ragionieri, esercitano la libera professione, mediante l’ausilio di un’organizzazione che, sia pure in termini putativi, rappresentano alla clientela il possesso dei requisiti normativi. Questi i criteri di diritto partorito dall’Alto Consesso: “Concreta esercizio abusivo di una professione, punibile a norma dell’art. 348 cod. pen., non solo il compimento senza titolo, anche se posto in essere occasionalmente e gratuitamente, di atti da ritenere attribuiti in via esclusiva a una determinata professione, ma anche il compimento senza titolo di atti che, pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva, siano univocamente individuati come di competenza specifica di una data professione, allorché lo stesso compimento venga realizzato con modalità tali, per continuatività, onerosità e (almeno minimale) organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un’attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato”. “Le condotte di tenuta della contabilità aziendale, redazione delle dichiarazioni fiscali ed effettuazione dei relativi pagamenti, non integrano il reato di esercizio abusivo delle professioni di dottore commercialista o di ragioniere e perito commerciale, quali disciplinate, rispettivamente, dai dd.PP.RR. nn. 1067 e 1068 del 1953, anche se svolte – da chi non sia iscritto ai relativi albi professionali – in modo continuativo, organizzato e retribuito, tale da creare, in assenza di indicazioni diverse, le apparenze di una tale iscrizione; a opposta conclusione, in riferimento alla professione di esperto contabile, deve invece pervenirsi se le condotte in questione siano poste in essere, con le caratteristiche suddescritte, nel vigore del nuovo D.Lgs. n. 139 del 2005”.
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza emessa il 10 novembre 2009 in esito a giudizio abbreviato il Tribunale di Milano condannava L..C. alla pena di legge, dichiarandolo colpevole, limitatamente ai fatti commessi dopo il 7 maggio 2001 (con contestuale declaratoria di improcedibilità per intervenuta prescrizione riguardo a quelli anteriori), dei reati, ritenuti avvinti dalla continuazione, di cui agli artt. 640, 61, comma primo, n. 11, cod. pen. (capo a), 482, 476 cod. pen. (capo b) e 348 cod. pen. (capo c), perché, con artifizi e raggiri consistiti nello spacciarsi per dottore commercialista e nel formare e presentare falsi certificati attestanti il versamento degli importi dovuti (oltre a un falso relativo alla presentazione di una domanda di accertamento di invalidità civile), e nell’ottenere conseguentemente da C..P. , F.F. (venditori ambulanti) ed E..M. (madre del P.), così indotti in errore, l’incarico, abusivamente svolto, di tenere la contabilità e provvedere alle dichiarazioni e ai pagamenti relativi ai vari tributi dovuti (e ai contributi previdenziali per l’attività autonoma), e la consegna di somme da versare a tali titoli, tratteneva per sé tali somme, così realizzando un ingiusto profitto, con relativo danno per le parti lese.
Su appello dell’imputato, con sentenza del 10 gennaio 2011, la Corte di appello di Milano confermava la pronuncia del Tribunale.
2. Ha proposto ricorso per cassazione l’imputato a mezzo del difensore, deducendo, innanzitutto, erronea applicazione della legge penale in ordine a tutti i reati ascritti.
Relativamente al reato di cui all’art. 348 cod. pen., ha rilevato in particolare che:
– tale norma deve correttamente essere interpretata nel senso che punisce solo lo svolgimento di attività riservate in via esclusiva a una determinata professione;
– anche a voler seguire l’orientamento giurisprudenziale, sposato dai giudici di merito, secondo il quale anche gli atti non riservati ma caratteristici della professione rilevano ai fini della configurazione del reato de quo, purché svolti in modo continuativo e organizzato, dell’esigenza di tale condizione aggiuntiva la Corte di merito non ha tenuto conto.
Quanto al reato di truffa, il ricorrente assume che lo stesso deve ritenersi assorbito in quello di falso, non essendovi stati artifici o raggiri diversi da quelli rappresentati dall’esibizione degli atti fasulli, effettuata non per acquisire la disponibilità del denaro ma solo per mascherare il mancato assolvimento degli incarichi relativi ai versamenti dovuti.
In relazione al reato di falso materiale in atto pubblico, si contesta in sostanza la incongrua valutazione di gravità operata dai giudici di merito e la loro acritica adesione alle accuse provenienti dalle parti lese, caratterizzate da incongruenza e indeterminatezza.
Si denunciano poi nel ricorso anche vizi di motivazione, in primo luogo, in ordine alla riconduzione delle condotte dell’imputato alla nozione di atti caratteristici dell’ambito professionale del commercialista.
Alla stregua degli atti egli sarebbe risultato in realtà un tuttofare, che solo incidentalmente avrebbe posto in essere sporadiche attività fra quelle descritte nella prima parte dell’art. 1 d.P.R. 27 ottobre 1953, n.1067: andava a prendere il lavoro direttamente presso i mercati all’aperto ove il F. lavorava, ricevendone in cambio somme modeste ed occasionali regalie consistenti in maglieria intima; indicava quale proprio indirizzo non quello di uno studio professionale, come sostenuto, ma solo quello di casa propria, un’abitazione senza una targa che lo indicasse come commercialista, sprovvista di una segreteria o di altri elementi caratteristici di uno studio professionale. Il giudice, sia in primo grado che in appello, non avrebbe fornito spiegazioni su come l’abitazione privata fosse diventata il centro nevralgico di un’attività organizzata, continuativa e professionale.
La motivazione sarebbe poi mancante sui motivi di censura sollevati con i motivi di appello circa l’attendibilità delle dichiarazioni rese dai denunciami, caratterizzate da incongruenza e indeterminatezza, nonché in ordine alla mancata concessione della circostanza attenuante dell’aver cagionato un danno patrimoniale di lieve entità, posto che quello concretamente accertato ammonterebbe a soli Euro 1671.
3. La Sesta Sezione penale della Corte di Cassazione, con ordinanza del 13 ottobre 2011, depositata in pari data, ha rimesso la trattazione del ricorso alle Sezioni Unite, rilevando l’esistenza di un irrisolto contrasto giurisprudenziale (già in precedenza segnalato dall’Ufficio del Massimario, con Relazione n. 1016/2003 del 20 febbraio 2002) sulla determinazione dell’ambito applicativo del reato di cui all’art. 348 cod. pen., fra un primo orientamento (a cui si è richiamata la difesa) che lo circoscrive allo svolgimento delle attività specificamente riservate da un’apposita norma a una determinata professione, e un secondo filone (inaugurato da Sez. 6, n. 49 del 08/10/2002, dep. 2003, Notaristefano, Rv. 223215) che, nel distinguere tra atti “tipici” della professione ed atti “caratteristici”, strumentalmente connessi ai primi, precisa che questi ultimi rilevano solo se vengano compiuti in modo continuativo e professionale “in quanto, anche in questa seconda ipotesi, si ha esercizio della professione per il quale è richiesta l’iscrizione nel relativo albo”; con la conseguenza – rilevante in riferimento alla fattispecie oggetto del ricorso del C. – che il reato di cui all’art. 348 cod. pen. sarebbe integrato dall’abusivo svolgimento non solo delle attività specificamente elencate nella seconda parte della previsione di cui all’art. 1 d.P.R. 27 ottobre 1953, n. 1068 (considerate dalla sentenza Notaristefano come tipiche, e cioè riservate solo ai ragionieri e periti commerciali) ma anche di quelle “relativamente libere”, previste nella prima parte del succitato art. 1 d.P.R. n. 1068 del 1953, ove poste in essere in modo continuativo, sistematico e organizzato, e presentate all’esterno come provenienti da professionista qualificato tecnicamente e moralmente.
4. Il Primo Presidente, con decreto del 17 ottobre 2011, ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite penali, fissando l’udienza pubblica del 15 dicembre 2011.
5. Con memoria depositata il 25 novembre 2011, la difesa, riepilogando il quadro normativo relativo alle professioni di dottore commercialista e ragioniere, ha messo in evidenza che i dd.PP.RR. nn. 1067 e 1068 del 1953 (ora abrogati e sostituiti dal d.lgs. n. 139 del 2005, adottato in attuazione della legge-delega n. 34 del 2005), applicabili al caso di specie ratione temporis, indicavano le attività oggetto delle dette professioni senza però attribuirle ai titolari della relativa abilitazione in via esclusiva: cosa che non avrebbero legittimamente neanche potuto fare, stante il divieto posto dalla legge-delega, come autorevolmente sottolineato da Corte cost., sent. n. 418 del 1996, che ha riconosciuto la ricomprensione delle dette attività, oltre che nella cornice operativa di altre categorie di liberi professionisti, anche nell’ambito degli spazi di libertà di espressione di lavoro autonomo e di libero esercizio di attività intellettuale autonoma non collegati a iscrizione in albi. A tale indirizzo del giudice delle leggi, che ha considerato esulanti dalla “protezione” degli albi le attività comportanti prestazioni non attribuite in via esclusiva, si sono, secondo la difesa, uniformati di recente, con specifico riferimento alle professioni commerciali, la giurisprudenza civile della Corte di cassazione e il T.A.R. del Lazio.
6. Con memoria depositata il 9 dicembre 2011, la Procura Generale presso questa Corte, oltre a rilevare l’infondatezza degli altri motivi di ricorso, ha aderito alla tesi della riferibilità della fattispecie incriminatrice dell’art. 348 cod. pen. al solo compimento (abusivo) delle attività attribuite a una determinata professione in via esclusiva, osservando che una sua estensione anche alle attività non esclusive ma caratteristiche della stessa e svolte continuativamente, oltre ad essere in contrasto col principio di cui all’art. 41, comma primo, Cost., si risolverebbe in un’applicazione analogica della legge penale non consentita e violatrice del principio di determinatezza e comporterebbe altresì un’alterazione della struttura del reato, trasformandolo da istantaneo in reato abituale o a condotta plurima. Con specifico riferimento alle professioni commerciali, il P.G. ha ricordato che, come ritenuto da Corte cost., sent. n. 418 del 1996 (a cui si è uniformata la giurisprudenza civile di questa Corte), e in sostanziale ossequio al summenzionato principio costituzionale, i dd.PP.RR. nn. 1067 e 1068 del 1953 non prevedono attribuzioni di attività in via esclusiva (come non le reca il d.lgs. n. 139 del 2005); in ogni caso, poi, non includono nella specifica elencazione delle attività di riconosciuta competenza tecnica quelle svolte dal ricorrente C. .
Considerato in diritto
1. La questione controversa.
La questione concreta da cui è scaturita la rimessione del ricorso alle Sezioni Unite è “se le condotte di tenuta della contabilità aziendale, redazione delle dichiarazioni fiscali ed effettuazione dei relativi pagamenti integrino il reato di esercizio abusivo della professione di ragioniere, perito commerciale o dottore commercialista, se svolte – da chi non sia iscritto al relativo albo professionale – in modo continuativo, organizzato e retribuito”.
Essa, peraltro, ne sottende un’altra, di carattere più generale, che attiene all’ambito applicativo della norma dell’art. 348 cod. pen., in riferimento in particolare al contrasto sulla delimitazione o meno di esso ai soli “atti” attribuiti in via esclusiva a una data professione.
2. Considerazioni introduttive generali sull’art. 348 cod. pen..
La norma incriminatrice dell’art. 348 cod. pen., che punisce chi “abusivamente esercita una professione, per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato”, trova la propria ratio nella necessità di tutelare l’interesse generale, di pertinenza della pubblica amministrazione, a che determinate professioni, richiedenti particolari requisiti di probità e competenza tecnica, vengano esercitate soltanto da chi, avendo conseguito una speciale abilitazione amministrativa, risulti in possesso delle qualità morali e culturali richieste dalla legge (in tal senso, testualmente, Sez. 6, n. 1207 del 15/11/1982, dep. 1985, Rossi, Rv. 167698). Il titolare dell’interesse protetto è, quindi, soltanto lo Stato, e l’eventuale consenso del privato destinatario della prestazione professionale abusiva non può avere valore scriminante.
La norma rinvia, per la sua concreta operatività, ad altre fonti, che, in via di integrazione necessaria, precisino quali sono le professioni soggette alla speciale abilitazione statale e quando il loro esercizio debba considerarsi “abusivo”.. Dette fonti integrative sono costituite non solo dalle discipline relative agli ordinamenti professionali ma da tutte quelle (inerenti ad es. alle materie oggetto degli esami di Stato e ai percorsi universitari, ovvero che richiamano, in contesti specifici, il titolo professionale come condizione per l’espletamento di determinati compiti) comunque rilevanti allo scopo (comprensive ora, fra l’altro, delle procedure propedeutiche all’esercizio in Italia di un’attività professionale da parte dei cittadini di uno Stato membro dell’U.E., sulla base del diritto di stabilimento e di quello della libera circolazione dei servizi sanciti dal Trattato U.E.). Viene pacificamente escluso, in ossequio al principio di determinatezza, che eventuali lacune normative possano essere colmate dal giudice penale con il ricorso a regole generali e astratte (Sez. 6, n. 9089 del 03/04/1995, Schirone, Rv. 202273; sulla stessa linea, fra le altre, nel percorso motivazionale, Sez. 6, n. 30590 del 10/04/2003, PM in proc. Bennati e altro; Sez. 6, n. 27853 dell’11/04/2001, Mombelli; Sez. 6, n. 5672 del 22/04/1997, Rosa Brusin; Sez. 6, n. 524 del 25/01/1996, PM in proc. Nicolino).
In ragione della detta necessaria eterointegrazione, la norma incriminatrice de qua viene generalmente configurata, sia in dottrina che in giurisprudenza (Sez. 6, n. 47028 del 10/11/2009, Trombetta, Rv. 245305; Sez. 5, n. 41142 del 17/10/2001, Coppo; Sez. 6, n. 16230 del 05/03/2001, Malli; Sez. 6, n. 1632 del 06/12/1996, dep. 1997, Manzi, Rv. 208185; Sez. 6, n. 2685 del 18/11/1993, dep. 1994, Salustri, Rv. 198235; Sez. 6, n. 11929 del 09/11/1992, Cagalli) come una norma penale in bianco. A tale costruzione si oppone, peraltro, l’orientamento di una parte della dottrina, fatto proprio anche da Corte cost., 27 aprile 1993, n. 119 (seguita da Sez. 6, n. 22528 del 27/03/2003, Carrabba), secondo il quale l’art. 348 cod. pen. delinea esaurientemente la fattispecie in tutte le sue componenti essenziali, individuandone come elemento necessario e sufficiente l’osservanza della speciale abilitazione che lo Stato richiede per l’esercizio della professione, mentre i contenuti ed i limiti propri di ciascuna abilitazione non rifluirebbero all’interno della struttura del fatto tipico, costituendo null’altro che un presupposto di fatto che il giudice è chiamato a valutare caso per caso.
Dalla ricognizione delle normative che prevedono e regolano le professioni soggette a speciale abilitazione dello Stato emerge, in via generale, che il conseguimento di tale titolo, da un lato, presuppone il possesso di altri pregressi titoli e, dall’altro, costituisce a sua volta il presupposto (principale ma non esclusivo) per la iscrizione in appositi albi (relativi ai laureati) o elenchi
(diplomati), tenuti dai rispettivi ordini e collegi professionali (enti pubblici di autogoverno delle rispettive categorie, a carattere associativo e ad appartenenza necessaria): iscrizione che è configurata essa stessa come condizione per l’esercizio della professione. La “abusività” prevista dalla norma penale viene conseguentemente riconnessa, in pratica, alla mancanza della detta iscrizione (la cui formale esistenza, fraudolentemente acquisita, non può peraltro supplire alla oggettiva assenza della prescritta abilitazione: Sez. 6, n. 3785 del 18/11/1994, dep. 1995, Melis, Rv. 201810). Ed è a tale presupposto negativo che direttamente si riferisce la disciplina civilistica delle professioni intellettuali, per negare la facoltà di agire per il pagamento della prestazione (art. 2231 cod. civ.).
Quanto in particolare alla centrale locuzione “esercita una professione”, essa attiene evidentemente ai contenuti dell’attività professionale e non può che trovare anch’essa la sua concreta integrazione nelle fonti che disciplinano le singole professioni.
In via generale, si può qui ricordare che, ai fini della tutela penale, l’esercizio de quo deve necessariamente esplicarsi con rilevanza esterna (Sez. 6, n. 12890 del 04/05/2000, Fiorentini, Rv. 217433; Sez. 5, n. 12177 del 18/02/2002, Bertelli, Rv. 221256).
3. L’orientamento che da rilevanza ai soli atti attribuiti in via esclusiva.
L’indirizzo tradizionale seguito in dottrina e giurisprudenza, al quale si è richiamato il ricorrente e anche il Procuratore Generale, ritiene che gli atti inclusi nella “protezione” penale accordata dall’ordinamento siano solo quelli attribuiti in via esclusiva a una determinata professione. In mancanza di tale presupposto – si è spesso osservato – si determinerebbe una indebita compressione dei diritti di libertà e di iniziativa economica spettanti a ciascun individuo.
In linea con tale impostazione, il reato in parola viene configurato come reato “istantaneo” (con il conseguente verificarsi, in caso di reiterazione programmata degli atti, del fenomeno della continuazione), e si ritiene che basti a integrarlo anche un atto (“riservato”) compiuto in modo occasionale e a titolo gratuito.
Non facili problemi ha ovviamente comportato l’applicazione in concreto del criterio in discorso. Spesso, infatti, dalle singole discipline non si evincono in modo chiaro e univoco gli atti riferibili a una determinata professione con attribuzione in via esclusiva. Non di rado, invero, le norme sugli ordinamenti professionali contengono elencazioni di attività qualificate di pertinenza delle rispettive professioni, senza però specificare se questo ne implichi anche l’esclusiva. Nelle fonti si rinvengono poi anche attribuzioni di competenze formulate in modo assolutamente generico.
Dubbi naturalmente non sorgono quando si sia in presenza di una esplicita e formale attribuzione in via esclusiva (monopolistica o condivisa con altre specifiche categorie), recata dalle stesse regolamentazioni degli ordinamenti professionali (v., ad es., l’art. 1 della legge 11 gennaio 1979, n. 12, sulla competenza dei consulenti del lavoro in materia di adempimenti inerenti al lavoro dipendente) ovvero derivante da fonti diverse, che al possesso del titolo per il legale esercizio professionale fanno riferimento come condizione necessaria per talune attività (v., ad es., l’art. 83, comma terzo, cod. proc. civ., e l’art. 12, comma 2, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546).
In mancanza di tali univoche indicazioni, il principale criterio guida è quello sostanzialistico, inerente cioè alla intrinseca specificità e delicatezza di determinate attività, incompatibili con il loro espletamento da parte di soggetti non muniti della relativa abilitazione, richiesta al riguardo per ragioni di essenziale tutela dell’utenza. A tale scopo può essere utile, se non indispensabile, fare riferimento alla funzione oggettiva che alcune professioni assumono nel contesto dei valori sociali, quale delineata dal complessivo coacervo delle norme ad esse attinenti (non escluse quelle che delimitano le competenze delle professioni affini). Tale ricerca è talora indistinguibile da quella rivolta a individuare (prima ancora che l’eventuale requisito dell’esclusività) le stesse attività riferibili in sé a una data professione. È il caso della professione medica, in cui sia l’oggettiva essenza sia la contestuale esclusività dell’attività professionale sono generalmente definite in ragione delle finalità di diagnosi delle malattie, prescrizione delle cure e somministrazione dei rimedi, con conseguente riservata inclusione in essa (salve le sfere specificamente assegnate alle professioni sanitarie “minori”) di qualsiasi trattamento pratico, anche non convenzionale (possono ricordarsi al riguardo, in tema di omeopatia, Sez. 6, n. 34200 del 20/06/2007, Mosconi, Rv. 237170; in tema di agopuntura, Sez. 6, n. 22528 del 27/03/2003, Carrabba, Rv. 226199; in tema di attività chiropratica, Sez. 6, n. 30590 del 10/04/2003, Bennati, Rv. 225685), che tali finalità persegua.
4. L’indirizzo inaugurato dalla sentenza Notaristefano.
Sez. 6, n. 49 del 08/10/2002, 2003, Notaristefano, Rv. 223215 (che è stata seguita da Sez. 6, n. 26829 del 05/07/2006, Russo, Rv. 234420 e ha ricevuto alcune adesioni anche in dottrina), innovando rispetto all’orientamento tradizionale (cui si sono, nel contempo continuate ad attenere Sez. 6, n, 17921 del 11/03/2003, Gava Livio, Rv. 224959, e Sez. 6, n. 17702 del 03/03/2004, Bordi, Rv. 228472), ritiene che, ai fini della norma incriminatrice in esame, assumono rilevanza tutti gli atti comunque “caratteristici” di una data professione, ricomprendendosi fra gli stessi, oltre agli atti ad essa attribuiti in via esclusiva – per i quali la sentenza de qua richiama le definizioni di “tipici” o “propri” o “riservati”, e il cui compimento, come si è visto, integra il reato, anche se avvenga in modo isolato e gratuito -, anche quelli che la sentenza definisce “relativamente liberi”, nel senso che chiunque può compierli a titolo occasionale e gratuito, ma il cui compimento (strumentalmente connesso alla professione) resta invece “riservato” se avvenga in modo continuativo, organizzato e remunerato. Anche in questa seconda ipotesi, secondo la Corte, si ha “esercizio della professione”, per il quale è richiesta l’iscrizione nel relativo albo, ricorrendo parimenti la necessità (che è a base della prevista tutela penale) “di tutelare il cittadino dal rischio di affidarsi, per determinate esigenze, a soggetti inesperti nell’esercizio della professione o indegni di esercitarla”.
Tale teoria “estensiva” è stata elaborata dalla sentenza Notaristefano in occasione dell’esame di una fattispecie attinente – al pari di quella oggetto del presente giudizio – proprio allo svolgimento delle attività di tenuta della contabilità dei clienti, con gestione delle relative posizioni fiscali e degli adempimenti collegati, inclusi la redazione delle denunce obbligatorie e il versamento di quanto a tal titolo dovuto. Nell’occasione la Corte prese in esame la disciplina dell’ordinamento professionale dei ragionieri e periti commerciali, vigente all’epoca dei fatti di causa (così come di quelli oggetto del presente giudizio), contenuta nel d.P.R. 27 ottobre 1953, n. 1068, recante Ordinamento della professione di ragioniere e perito commerciale, emanati in forza della L. 28 dicembre 1952, n. 3060, recante Delega al Governo della facoltà di provvedere alla riforma degli ordinamenti delle professioni di esercente in economia e commercio e di ragioniere.
L’art. 1 di tale d.P.R., nello stabilire l’oggetto della professione, riconosceva (comma primo) in via preliminare agli iscritti nell’albo dei ragionieri e periti commerciali “competenza tecnica in materia di ragioneria, di tecnica commerciale e di economia aziendale nonché in materia di amministrazione e di tributi”. Nell’indicare gli atti rientranti nell’esercizio dell’attività protetta, lo stesso articolo stabiliva poi che “in particolare” formavano oggetto della professione le seguenti attività: a) l’amministrazione e la liquidazione di aziende, di patrimoni e di singoli beni; b) le perdite contabili e le consulenze tecniche; c) la revisione dei libri obbligatori e facoltativi delle imprese ed ogni indagine in tema di bilancio, di conti, di scritture e di ogni documento contabile delle imprese; d) i regolamenti e le liquidazioni di avarie marittime; e) le funzioni di sindaco delle società commerciali e degli altri enti; f) le divisioni di patrimoni, la compilazione dei relativi progetti e piani di liquidazione nei giudizi di graduazione; g) i piani di contabilità per aziende private e pubbliche, i riordinamenti di contabilità per riorganizzazioni aziendali; h) le determinazioni dei costi di produzione nelle imprese industriali, le rilevazioni in materia contabile e amministrativa.
Secondo la sentenza Notaristefano, l’elencazione specifica contenuta nella seconda parte dell’articolo riportato è “indicativa di una riserva di competenza, cioè individua la competenza tipica riservata ai ragionieri e ai periti commerciali”, mentre le attività indicate in via generale nella prima parte dei medesimo articolo (cui erano riconducibili quelle compiute dalla imputata nel caso di specie), pur se “relativamente libere” nel senso predetto, integrano il concetto di esercizio della professione in esame, “se poste in essere in modo continuativo, sistematico e organizzato e presentate all’esterno come rivenienti da professionista qualificato tecnicamente e moralmente”.
5. Posizione assunta dalla sentenza impugnata.
La sentenza impugnata; nel confermare la condanna del C. anche per il reato di cui all’art. 348 cod. pen., ha fatto puntuale applicazione dell’indirizzo “estensivo” sopra esposto, rilevando che nel caso sottoposto al suo esame gli atti compiuti dal prevenuto, pur non essendo, come tali, riservati in via esclusiva alla professione di ragioniere e perito commerciale, rientravano comunque fra quelli “relativamente liberi”, riconducibili alle competenze indicate in via generale nella prima parte dell’art. 1 del cit. d.P.R. n. 1068 del 1953, ed, essendo stati compiuti in modo continuativo, sistematico e retribuito, integravano senz’altro il reato predetto.
6. Interpretazione delle norme sugli ordinamenti delle professioni contabili. Prima di affrontare il tema della soluzione del contrasto innescato dalla sentenza Notaristefano, è opportuno soffermarsi un po’ più ampiamente sulla disciplina relativa alle professioni contabili vigente all’epoca dei fatti.
Si è già sopra illustrata parte del contenuto dell’art. 1 del d.P.R. n. 1068 del 1953. Tale norma, in effetti, proseguiva (comma secondo) introducendo l’obbligo per l’autorità giudiziaria e per le pubbliche amministrazioni di affidare normalmente gli incarichi relativi alle predette attività ai ragionieri e periti commerciali iscritti nell’albo “salvo che si tratti di incarichi che per legge rientrano nella competenza dei dottori commercialisti, degli avvocati e dei procuratori o che la amministrazione pubblica conferisce, per legge, ai propri dipendenti”.
In ogni caso, infine, la elencazione di cui al primo comma non era considerata ostativa all’esercizio “di ogni altra attività professionale dei ragionieri e periti commerciali, né quanto può formare oggetto dell’attività professionale di altre categorie di professionisti a norma di leggi e di regolamenti” (comma terzo).
Quanto ai dottori commercialisti, il d.P.R. 27 ottobre 1953, n. 1067, emanato parimenti in forza della ricordata L. 28 dicembre 1952, n. 3060, recava nel suo art. 1, uno svolgimento sostanzialmente analogo a quello dell’art. 1 del d.P.R. n. 1068, riconoscendo (comma primo) in via preliminare ai dottori commercialisti “competenza tecnica nelle materie commerciali, economiche, finanziarie, tributarie e di ragioneria”, e stabilendo poi, nell’indicare gli atti rientranti nell’esercizio dell’attività protetta, che “in particolare” formavano oggetto della professione le seguenti attività: a) l’amministrazione e la liquidazione di aziende, di patrimoni e di singoli beni; b) le perizie e le consulenze tecniche; c) le ispezioni e le revisioni amministrative; d) la verificazione ed ogni altra indagine in merito alla attendibilità di bilanci, di conti, di scritture e d’ogni altro documento contabile delle imprese; e) i regolamenti e le liquidazioni di avarie; f) le funzioni di sindaco e di revisore nelle società commerciali.
La norma, poi, proseguiva (comma secondo) introducendo l’obbligo per l’autorità giudiziaria e per le pubbliche amministrazioni di affidare normalmente gli incarichi relativi alle predette attività di cui sopra a persone iscritte nell’albo dei dottori commercialisti “salvo che si tratti di incarichi che per legge rientrino nella competenza dei ragionieri liberi esercenti, degli avvocati e dei procuratori o che l’Amministrazione pubblica conferisce per legge ai propri dipendenti”. A differenza di quanto stabilito per l’esercizio della professione di ragionieri e periti commerciali iscritti nell’albo, la norma (comma terzo) prevedeva però la possibilità che l’incarico potesse essere affidato a persone diverse da quelle sopra indicate, purché nel provvedimento di nomina si giustificassero “i particolari motivi di scelta”.
Infine, con disposizione di tenore analogo a quella contenuta nell’omologa previsione dell’art. 1 del d.P.R. n. 1067 del 1953, si stabiliva che la predetta elencazione non era da considerarsi ostativa all’esercizio “di ogni altra attività professionale dei dottori commercialisti, né quanto può formare oggetto dell’attività professionale di altre categorie di professionisti a norma di leggi e regolamenti” (comma quarto).
Da notare poi che l’art. 1 della legge delega n. 3060 del 1952 stabiliva che il Governo si dovesse uniformare a una serie di principi e criteri direttivi, tra cui rileva, per quanto qui di interesse (come meglio si vedrà più innanzi), il primo:
“a) la determinazione del campo delle attività professionali non deve importare attribuzioni di attività in via esclusiva”.
Questo essendo il tenore delle norme, una prima osservazione da fare è che le stesse contengono, accanto a una previsione di competenze definite in modo del tutto generico (prima parte degli artt. 1), un’elencazione specifica di attività ritenute formanti oggetto “in particolare” delle professioni. Ora, tale elencazione, contrariamente a quanto affermato dalla sentenza Notaristefano e dalla prevalente giurisprudenza (vedi Sez. 6, n. 6157 del 28/02/1985, Giannaccini, Rv. 169824; Sez. 6, n. 2685 del 18/11/1993, dep. 1994, Salustri, Rv. 198235; Sez. 6, n. 904 del 21/10/1999, dep. 2000, Zambon, Rv. 215432; Sez. 6, n. 13124 del 14/02/2001, Meloni, Rv. 218306), non ne comporta per sé l’attribuzione in via esclusiva. L’elencazione è preceduta, invero, dalla semplice locuzione: “In particolare formano oggetto della professione le seguenti attività”. Nell’ultimo comma degli artt. 1, poi (come già sopra ricordato), è espressamente puntualizzato che “L’elencazione di cui ai presente articolo non pregiudica l’esercizio di ogni altra attività professionale dei ragionieri e periti commerciali, né quanto può formare oggetto dell’attività professionale di altre categorie di professionisti a norma di leggi e di regolamenti”.
Se quanto sopra si legge doverosamente alla luce della legge delega 28 dicembre 1952, n. 3060, secondo la quale (come già ricordato) “la determinazione del campo delle attività professionali non deve importare attribuzioni di attività in via esclusiva”, non può che concludersi nel senso indicato da Corte cost. n. 418 del 1996, per la quale nelle norme delegate in esame “non si rinviene alcuna attribuzione in via esclusiva di competenze”, e la succitata “espressione a norma di leggi e regolamenti, di cui all’ultimo comma di entrambe le disposizioni […] del d.P.R. nn. 1067 e 1068 del 1953, deve doverosamente essere intesa non con esclusivo riferimento a professioni regolamentate mediante iscrizione ad albo, ma anche […] con riferimento agli spazi di libertà di espressione di lavoro autonomo e di libero esercizio di attività intellettuale autonoma non collegati a iscrizione in albi”.
7. Soluzione del contrasto.
Il contrasto innescato dalla sentenza Notaristefano può e deve essere risolto, ad avviso del Collegio, attraverso una interpretazione estensiva della norma dell’art. 348 cod. pen., che superi i limiti dell’orientamento tradizionale, recuperando le ragioni sostanziali della detta sentenza, in un’ottica che tenga nel giusto conto la ratio della norma incriminatrice e il contesto normativo in cui è destinata a operare, ma sia nel contempo rispettosa del principio di tassativita.
Secondo l’orientamento sostenuto dalla Notaristefano, in sostanza, gli atti caratteristici “relativamente liberi” di una determinata professione, non attribuiti ad essa in via esclusiva, qualificano comunque la medesima e non possono, quindi, essere svolti, da chi non vi sia abilitato, in un modo che ne costituisca di fatto esercizio, e cioè in forma stabile, organizzata e retribuita. In tal modo la tutela penale è estesa, dal singolo atto di per sé riservato, allo svolgimento “sistematico” (riservato solo in quanto tale) di atti qualificanti (anche se singolarmente non riservati). Il tratto comune alle due condotte si rinviene evidentemente nell’essere entrambe espressione tipica e oggettiva dell’esercizio professionale.
Tale assunto è inaccettabile nella concreta applicazione che la sentenza ne fa: come riferito cioè a categorie di attività definite in senso estremamente lato e generico. Esso, infatti, come si è sopra ricordato, è stato applicato in relazione alla generale previsione, contenuta nella prima parte dell’art. 1 del d.P.R n. 1068 del 27 ottobre 1953, relativa al riconoscimento di “competenza tecnica in materia di ragioneria, di tecnica commerciale, di economia aziendale nonché in materia di amministrazione e di tributi”.
Il principio di tassatività delle fattispecie incriminatrici, discendente da quello di legalità e riferibile, come questo, non solo alle previsioni direttamente contenute nelle norme penali ma anche a quelle delle fonti extrapenali che ne costituiscano sostanziale integrazione, impedisce di dare qualsiasi rilievo, ai fini della norma di cui all’art. 348 cod. pen., a disposizioni di carattere così indeterminato, come quella sopra indicata (e discorso analogo vale, ovviamente, per la consimile disposizione, contenuta nella prima parte dell’art. 1 del d.P.R n. 1067 del 27 ottobre 1953, secondo cui “Ai dottori commercialisti è riconosciuta competenza tecnica nelle materie commerciali, economiche, finanziarie, tributarie e di ragioneria”).
L’interpretazione estensiva proposta nella Notaristefano è invece da condividere in riferimento a quelle attività che, pur quando non siano attribuite in via esclusiva, siano però qualificate nelle singole discipline, con previsione, beninteso, puntuale e non generica (in rispetto, quindi, del principio di tassativita), come di specifica o particolare competenza di una data professione (tale è, ad es., proprio il caso delle surriportate elencazioni di cui alla seconda parte degli artt. 1 dei dd.PP.RR. nn. 1067 e 1068 del 1953). È innegabile, infatti, che quando tali attività siano svolte in modo continuativo e creando tutte le apparenze (organizzazione, remunerazione, ecc.) del loro compimento da parte di soggetto munito del titolo abilitante, le stesse costituiscano espressione tipica della relativa professione e ne realizzino quindi i presupposti dell’abusivo esercizio, sanzionato dalla norma penale. Il concetto di esercizio professionale contiene già in sé un tendenziale tratto di abitualità, e, se è vero che da esso è giusto prescindere a fronte di atti che l’ordinamento riservi come tali, nell’interesse generale, a una speciale abilitazione, ne è naturale, ragionevole ed ermeneuticamente rilevante il recupero in presenza dell’indebita invasione di uno spazio operativo considerato dall’ordinamento come specificamente qualificante una determinata professione, allorché la stessa sia attuata con modalità idonee a tradire l’affidamento dei terzi, per la tutela dei cui interessi l’esercizio di quella professione è stato sottoposto a particolari cautele.
I precedenti rilievi che spingono a ricondurre le situazioni testé descritte nell’ambito applicativo dell’art. 343 cod. pen. ricevono un conforto essenziale dal carattere unitario del presidio che il codice penale del 1930 (innovando in ciò rispetto alla legislazione precedente) ha oggettivamente assicurato al complessivo sistema delle professioni soggette ad abilitazione, con una proiezione normativa idonea a inglobarne l’ampliamento e l’evoluzione che ne sono seguiti nel tempo, in un contesto corroborato, fra l’altro, dall’importante riconoscimento costituzionale di cui all’art. 33, comma quinto, Cost.. Esistono, come si è già ricordato, ordinamenti professionali “protetti” in cui si rinvengono indicazioni di attività ritenute di competenza “specifica”, ma per le quali manca una espressa attribuzione di esclusiva. Tali indicazioni, nei casi in cui l’attribuzione esclusiva non sia desumibile formalmente aliunde o attraverso il ricordato criterio sostanzialistico, resterebbero, secondo l’orientamento tradizionale, e in maniera irragionevolmente contrastante con la stessa previsione della professione “protetta”, delle vuote nomenclature. Diventa, così, decisivo per l’interprete lo stato reale della legislazione, che, ad onta di sollecitazioni “aperturiste” provenienti da più parti, contempla tuttora un sistema di professioni organizzato in Ordini/Collegi e rispettivi Albi ad appartenenza necessaria, non circoscritto alle sole attività destinate alla tutela di essenziali valori costituzionali (come, in particolare, la salute e il diritto alla difesa in giudizio) e non inscindibilmente connesso alla riserva di specifiche attribuzioni esclusive. Di tale assetto si ha significativa conferma nel comma 2 dell’art. 1 del d.P.R. 5 giugno 2001, n. 328 (recante Modifiche ed integrazioni della disciplina dei requisiti per l’ammissione all’esame di Stato e delle relative prove per l’esercizio di talune professioni, nonché della disciplina dei relativi ordinamenti), laddove si dice che “Le Norme contenute nel presente regolamento non modificano l’ambito stabilito dalla normativa vigente in ordine alle attività attribuite o riservate, in via esclusiva o meno, a ciascuna professione”.
Gli esposti rilievi logico-sistematici, unitamente allo stesso tenore letterale dell’art. 348 cod. pen., impongono, dunque, l’adesione all’interpretazione estensiva in discorso. La quale enuclea, in sostanza, accanto alla “riserva” professionale collegata alla attribuzione in esclusiva dell’atto singolo, una riserva collegata allo svolgimento, con modalità tipiche della professione, di atti univocamente ricompresi nella sua competenza specifica: conclusione questa che si rivela, in definitiva – come già precisato -, l’unica coerente con un sistema indistinto di Albi in cui non è indispensabile l’esistenza di riserva esclusiva di specifiche attività ma che sono nel contempo ad appartenenza necessaria.
È importante, per evitare equivoci applicativi, ribadire con chiarezza che la condotta “abituale” ritenuta punibile in tale ricostruzione deve essere posta in essere con le oggettive apparenze di un legittimo esercizio professionale, perché solo a questa condizione, in presenza di atti non riservati per se stessi, si viola appunto il principio della generale riserva riferita alla professione in quanto tale, con correlativo tradimento dell’affidamento dei terzi. Ne consegue che quando tali apparenze mancano, sia per difetto di abitualità, organizzazione o remunerazione, sia perché il soggetto agente espliciti in modo inequivoco che egli non è munito di quella specifica abilitazione e opera in forza di altri titoli o per esperienza personale comunque acquisita, si è fuori dell’ambito di applicazione dell’art. 348 cod. pen. Tale vantazione va compiuta peraltro, in conformità all’interesse protetto dal reato, su un piano generale e oggettivo, e non nella dimensione dello specifico rapporto interpersonale, con quanto ne consegue ai fini della (persistente) irrilevanza scriminante del consenso del singolo destinatario della prestazione abusiva.
Tirando le fila del discorso, si può affermate il seguente principio di diritto: “Concreta esercizio abusivo di una professione, punibile a norma dell’art. 348 cod. pen., non solo il compimento senza titolo, anche se posto in essere occasionalmente e gratuitamente, di atti da ritenere attribuiti in via esclusiva a una determinata professione, ma anche il compimento senza titolo di atti che, pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva, siano univocamente individuati come di competenza specifica di una data professione, allorché lo stesso compimento venga realizzato con modalità tali, per continuatività, onerosità e (almeno minimale) organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un’attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato”.
8. Soluzione del caso e norme speciali sopravvenute.
Applicando le conclusioni in diritto che precedono alla fattispecie di causa, si deve osservare che le attività ascritte al C. non erano incluse nelle positive elencazioni di quelle considerate di particolare competenza della professione di dottore commercialista o di ragioniere e perito commerciale a sensi dei dd.PP.RR. nn. 1067 e 1068 del 1953, vigenti all’epoca. Esse, quindi – escluso, per le ragioni sopra esposte, di poter valorizzare al riguardo le previsioni introduttive di carattere generale contenute negli stessi decreti – restano del tutto fuori del campo di applicabilità dell’art. 348 cod. pen., quand’anche connotate dai caratteri di continuatività, onerosità e organizzazione.
La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata senza rinvio in relazione all’imputazione di cui all’art. 348 cod. pen., perché il fatto non è previsto dalla legge come reato. Ne consegue l’eliminazione della relativa pena di un mese e dieci giorni di reclusione.
Per completezza, può aggiungersi che il successivo D.Lgs. 28 giugno 2005, n. 139, emanato in attuazione della delega conferita al Governo con l’art. 2 della legge 24 febbraio 2005, n. 34, ha sostituito i dd.PP.RR. nn. 1067 e 1068 del 1953, istituendo l’Albo unificato dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, e, oltre a una elencazione di attività comune alle due categorie (riproducente quella già relativa ai commercialisti secondo il d.P.R. 1067 del 1953), ha previsto un lungo elenco di altre attività di riconosciuta competenza tecnica dei soli iscritti alla Sezione A (Commercialisti) e un elenco di attività di riconosciuta competenza tecnica degli iscritti alla Sezione B (Esperti contabili) dell’Albo, fra le quali sono state incluse le seguenti: “a) tenuta e redazione dei libri contabili, fiscali e del lavoro, controllo della documentazione contabile, revisione e certificazione contabile di associazioni, persone fisiche o giuridiche diverse dalle società di capitali; b) elaborazione e predisposizione delle dichiarazioni tributarle e cura degli ulteriori adempimenti tributari”.
Pur non recando più la legge delega n. 39 del 2005 la previsione, già presente nella legge delega 28 dicembre 1952, n. 3060, secondo la quale (criterio direttivo sub a) “la determinazione del campo delle attività professionali non deve importare attribuzioni di attività in via esclusiva”, e pur essendosi, nel D.Lgs. 139 del 2005, riformulata la clausola di salvezza per i soggetti non iscritti all’Albo oggetto dei decreto in un modo che sembra riferirsi solo ai professionisti iscritti in altri Albi (“Sono fatte salve le prerogative attualmente attribuite dalla legge ai professionisti iscritti in altri albi”), non si ravvisano ragioni formali (in relazione alle espressioni usate) o sostanziali (in relazione alla natura della professione di esperto contabile) per ritenere che l’inserimento nell’elenco comune agli iscritti alle due Sezioni e nell’elenco separato relativo agli iscritti alla Sezione B comporti ora l’attribuzione in via esclusiva delle relative attività. Conferma decisiva di tale conclusione discende dalla constatazione che l’unico accenno, presente nella nuova legge delega, ricollegabile in qualche modo a una possibile logica di competenza esclusiva (non monopolistica), la sussistenza e i limiti della cui effettiva realizzazione restano ovviamente da verificare, riguarda gli iscritti alla sezione A e si rinviene in particolare nella lett. d) dell’art. 3, laddove si prevede che “È consentita l’attribuzione di nuove competenze agli iscritti nella sezione dell’Albo unico riservata ai laureati specialistici, che presentino profili di interesse pubblico generale, nel rispetto del principio della libertà di concorrenza e fatte salve le prerogative attualmente attribuite dalla legge a professionisti iscritti ad altri albi. Sono fatte salve, altresì, le attività di natura privatistica già consentite dalla legge agli iscritti a registri, ruoli ed elenchi speciali tenuti dalla pubblica amministrazione”.
La specifica inclusione delle attività di tenuta e redazione dei libri contabili, fiscali e del lavoro, e di elaborazione e predisposizione delle dichiarazioni tributarie e cura degli ulteriori adempimenti tributari, nell’elenco di quelle riconosciute di competenza tecnica degli iscritti alla sezione B consente però ora senz’altro di ritenere, alla stregua delle conclusioni sopra assunte, che lo svolgimento di esse, se effettuato da soggetto non abilitato con modalità tali da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse dallo stesso provenienti, le apparenze dell’attività professionale svolta da esperto contabile regolarmente abilitato, è punibile a norma dell’art. 348 cod. pen..
Il principio di diritto che da quanto sopra si può enucleare è il seguente: “Le condotte di tenuta della contabilità aziendale, redazione delle dichiarazioni fiscali ed effettuazione dei relativi pagamenti, non integrano il reato di esercizio abusivo delle professioni di dottore commercialista o di ragioniere e perito commerciale, quali disciplinate, rispettivamente, dai dd.PP.RR. nn. 1067 e 1068 del 1953, anche se svolte – da chi non sia iscritto ai relativi albi professionali – in modo continuativo, organizzato e retribuito, tale da creare, in assenza di indicazioni diverse, le apparenze di una tale iscrizione; a opposta conclusione, in riferimento alla professione di esperto contabile, deve invece pervenirsi se le condotte in questione siano poste in essere, con le caratteristiche suddescritte, nel vigore del nuovo D.Lgs. n. 139 del 2005”.
9. Raffronto con la giurisprudenza costituzionale e la giurisprudenza civile. Le conclusioni adottate non appaiono incompatibili con quanto affermato dalla citata Corte cost. n. 418 del 1996. Nell’occasione la Consulta venne investita dal giudice a quo, nel corso di una controversia civile relativa al pagamento di compensi per attività di consulenza aziendale espletata da una S.r.l., della questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, primo ed ultimo comma, del d.P.R. 27 ottobre 1953, n. 1067 (Ordinamento della professione di dottore commercialista) e 1, primo ed ultimo comma, del d.P.R. 27 ottobre 1953, n. 1068 (Ordinamento della professione di ragioniere e perito commerciale), “nella parte in cui riservano concretamente in via esclusiva a quei professionisti l’esercizio professionale nelle materie della economia e della consulenza aziendale”: questione sollevata in particolare in riferimento all’art. 76 della Costituzione, in relazione alla presunta “violazione del criterio direttivo della legge delega 28 dicembre 1952, n. 3060 sulla revisione degli ordinamenti professionali di dottore commercialista e di ragioniere, che all’articolo unico, lettera a), dispone che la determinazione del campo delle attività professionali non deve importare attribuzioni di attività in via esclusiva”. Gli ultimi commi degli artt. 1 dei dd.PP.RR. nn. 1067 e 1068 del 1953, dettati in applicazione del criterio direttivo della legge delega sul divieto di attribuzione esclusiva delle materie indicate agli iscritti negli albi dei commercialisti, ben lungi dall’aver tale effetto, avevano di contro, secondo il giudice rimettente, concretamente impedito l’esercizio di tale attività di consulenza a chi non fosse iscritto negli albi, dal momento che, secondo il loro tenore testuale, solo i professionisti iscritti in altri albi potevano esercitare nelle stesse materie, purché loro attribuite da leggi e regolamenti. Poiché nessuna legge prescriveva alcun “albo dei consulenti aziendali”, ne conseguiva che l’esercizio in via esclusiva dell’attività professionale in materia “economica” ai commercialisti e ai ragionieri assorbiva anche quella di consulenza aziendale, determinando l’esercizio esclusivo in favore di questi ultimi.
Nel risolvere la questione con pronuncia interpretativa di rigetto, la Consulta, come si è sopra visto, escluse che nelle norme delegate fossero rinvenibili attribuzioni in via esclusiva di competenze, e interpretò la clausola di cui all’ultimo comma degli artt. 1 dei dd.PP.RR. nn. 1067 e 1068 del 1953, secondo la quale l’elencazione delle attività, oggetto della professione disciplinata, non pregiudica “quanto può formare oggetto dell’attività professionale di altre categorie a norma di leggi e regolamenti” nel senso che l’espressione “a norma di leggi e regolamenti”, doveva essere intesa “non con esclusivo riferimento a professioni regolamentate mediante iscrizione ad albo, ma anche, per quel che qui più rileva, con riferimento agli spazi di libertà di espressione di lavoro autonomo e di libero esercizio di attività intellettuale autonoma non collegati a iscrizione in albi”.
Com’è evidente dall’oggetto della pronuncia e dal suo tenore formale e sostanziale, il discorso in essa svolto, anche per quanto concerne le importanti enunciazioni di carattere generale (“Al di fuori delle attività comportanti prestazioni che possono essere fornite solo da soggetti iscritti ad albi o provvisti di specifica abilitazione […], per tutte le altre attività di professione intellettuale o per tutte le altre prestazioni di assistenza o consulenza […], vige il principio generale di libertà di lavoro autonomo o di libertà di impresa di servizi a seconda del contenuto delle prestazioni e della relativa organizzazione”), si è interamente e costantemente mantenuto sul piano dei problemi inerenti alle attribuzioni esclusive di specifiche attività, da escludere in assenza di univoche indicazioni in contrario (ed escluse in concreto in riferimento ai dd.PP.RR. presi in considerazione). È rimasta quindi (e non poteva che rimanere) fuori dal suo ambito la questione della possibile rilevanza, ai fini dell’applicabilità dell’art. 348 cod. pen., dello svolgimento di specifiche attività attribuite a una professione soggetta ad abilitazione non in via esclusiva ma sotto il profilo della particolare competenza tecnica, attuato (da un non abilitato) in forma sistematica e con le oggettive apparenze del possesso del relativo titolo, e da ritenere, (solo) per e in tali modalità, “riservato” alla professione stessa.
Incompatibili con le conclusioni assunte nella presente decisione non appaiono neppure gli esiti di recenti arresti della giurisprudenza civile di questa Corte, che, in dichiarata adesione alla anzidetta pronuncia del Giudice delle leggi (e a modifica della posizione assunta in precedenza da Sez. 2 civ., n. 21495 del 12/10/2007, Rv. 600035), hanno riconosciuto il diritto di consulenti del lavoro al compenso per le attività di consulenza e valutazione in materia aziendale, ritenute non riservate per legge in via esclusiva ai dottori commercialisti, ai ragionieri e ai periti commerciali (Sez. 2 civ., n. 15530 del 11/06/2008, Rv. 603748), e per le attività di tenuta delle scritture contabili dell’impresa, redazione dei modelli IVA o per la dichiarazione dei redditi, effettuazione di conteggi ai fini dell’IRAP o ai fini dell’ICI, richiesta di certificati o presentazione di domande presso la Camera di Commercio, ritenute non rientranti in quelle riservate solo a soggetti iscritti ad albi o provvisti di specifica abilitazione (Sez. 2 civ., n. 14085 del 11/06/2010, Rv. 613443). Le attività indicate, infatti, da un lato, non erano incluse all’epoca nelle elencazioni specifiche delle attività qualificate come di particolare competenza delle professioni commerciali, e, dall’altro (e al di là di ogni altra possibile considerazione), erano comunque svolte nell’esercizio della professione di consulente del lavoro e, quindi, senza l’indotta apparenza di un esercizio facente capo a soggetto abilitato a professione commerciale.
10. Altri addebiti: a) la truffa.
Quanto agli altri addebiti, in relazione alla contestata imputazione di truffa (art. 640 cod. pen.), la difesa del ricorrente – nel ribadire le argomentazioni già svolte nei motivi di appello – ne ha sostenuto l’insussistenza, deducendo che la condotta illecita si è esaurita nel reato di falso, cui è stata di recente riconosciuta (da Sez. U, n. 46982 del 25/10/2007, Pasquini, Rv. 237855) la natura di reato plurioffensivo (avente come oggetto sia la fede pubblica che l’interesse privato), e che è stato nella specie posto in essere non per ottenere la disponibilità del denaro ma solo per mascherare il mancato assolvimento dell’impegno ad effettuare i dovuti pagamenti.
In realtà; dalla ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito, quale emerge dalla motivazione da essi resa (come integrata anche da quella della pronuncia di primo grado), avverso la quale sono state mosse censure risolventisi in deduzioni di fatto ovvero nella denuncia del mancato diretto apprezzamento di rilievi difensivi sostanzialmente privi di decisività e implicitamente superati dalla ampia esposizione e logica valutazione dei molteplici e convergenti elementi probatori (orali e documentali) acquisiti, risulta con chiarezza che il C. : – si presentò con la falsa veste di professionista qualificato; – ottenne in tal modo dai clienti l’incarico di tenerne la contabilità e di curarne gli adempimenti amministrativi e fiscali; – omettendo largamente l’assolvimento di tali adempimenti, si fece consegnare le somme destinate ai pagamenti ad essi correlati; – omettendo tali pagamenti, trattenne per sé le somme ed esibì ai clienti false certificazioni, da lui formate, attestanti i detti pagamenti.
In tale sequenza di comportamenti non c’è dubbio che deve essere – ed è stata correttamente – ravvisata la fattispecie della truffa (aggravata a sensi dell’art. 61 n. 11 cod. pen.), in quanto il conseguimento indebito, da parte del C. , delle somme versategli dai clienti è il risultato di una strategia artificiosa e fraudolenta, rispetto alla quale la formazione e l’esibizione degli atti falsi si pone come un aggiuntivo ma non essenziale tassello di completamento, diretto a coprire non un mero casuale inadempimento ma il momento saliente (realizzazione dell’ingiusto profitto) della operazione truffaldina.
Considerata, poi, la reiterazione delle condotte e la inquadrabilità dei falsi inerenti a operazioni precedenti come mezzi per rendere più agevoli le operazioni successive, non può che ricordarsi, in diritto, che, per giurisprudenza consolidata (su cui non ha certo influito la richiamata decisione delle Sezioni Unite Pasquini), i reati di truffa e falso, aventi oggetti giuridici ed elementi strutturali distinti, non possono considerarsi in rapporto di specialità né sono riconducibili alla figura del reato complesso, di tal che, quanto il falso venga usato come raggiro, essi concorrono fra di loro (Sez. 5, n. 21409 del 05/02/2008, Franchi, Rv. 240081; Sez. 2, n. 4701 del 16/12/1988, dep. 1989, Piazza, Rv. 180937; Sez. 5, n. 2990 del 18/01/1984, Arenare, Rv. 163439; Sez. 5, n. 5186 del 22/04/1983, Sambucco, Rv. 159355; Sez. 5, n. 862 del 27/10/1978, dep. 1979, Ceccato, Rv. 140899; Sez. 2, n. 12431 del 01/10/1975, Biava, Rv. 131600; Sez. 2, n. 443 del 02/04/1973, dep.1974, Fava, Rv. 125988; Sez. 5, n. 520 del 26/03/1971, Barbotto, Rv. 118398; Sez. 2, n. 866 del 10/04/1970, dep. 1971, Musumeci, Rv. 117169; Sez. 5, n. 121 del 25/01/1971, Macchiarella, Rv. 116902; Sez. 5, n. 1 del 13/01/1970, Baldi, Rv. 114480; Sez. 5, n. 1073 del 13/11/1968, dep. 1969, Benci, Rv. 109964; Sez. 2, n. 532 del 28/03/1966, Savoldini, Rv. 102076).
11. segue: b) il falso.
In relazione alla imputazione di falso materiale (artt. 476, 482 cod. pen.), la difesa propone censure che si concretano nella contestazione della valutazione in termini di gravità del delitto in esame, cui sarebbe seguito un rigore sanzionatorio ritenuto eccessivo in relazione, da un lato, al danno cagionato (Euro 1.671,00) e, dall’altro, al rito abbreviato richiesto dall’imputato. Si tratta all’evidenza di censure improponibili, in quanto investono, per di più in modo generico, un punto della decisione, quale la commisurazione della pena, che è rimesso alla valutazione discrezionale del giudice di merito, come tale sottratta al sindacato di legittimità, ove – come appunto nel caso di specie (v., oltre al formale richiamo ai criteri dettati dall’art. 133 cod. pen., i riferimenti, rinvenibili nel corpo della motivazione, ai precedenti specifici, alla intensità del dolo, alla capacità a delinquere) – corredata di una motivazione idonea a far emergere la ragione della concreta scelta operata.
12. Il motivo sull’attenuante di cui all’art. 62 n. 4 cod. pen..
Resta da esaminare il motivo col quale la difesa sostiene che il giudice d’appello, in presenza di un danno accertato di Euro 1671 (essendo rimasto indeterminato il “maggior danno” ritenuto esistente dal Tribunale), non ha spiegato perché non sia concedibile l’invocata attenuante di cui all’art. 62 n. 4 cod. pen., omettendo così di rispondere al relativo motivo formulato in appello.
La denunciata omissione è irrilevante, non avendo mai la difesa mosso critiche specifiche alla logica e articolata motivazione con cui la sentenza di primo grado, nel disattendere la richiesta di riconoscimento della detta attenuante, ha evidenziato che, oltre che dagli importi di cui il C. si è direttamente appropriato (determinati solo con riferimento alla soglia minima accertata di Euro 1671,00), il danno subito dalle persone offese è rappresentato anche dalle pesanti conseguenze (pagamento di sovrattasse e sanzioni) ricadenti su di loro (in termini certamente non di “speciale tenuità”) per effetto dei comportamenti dell’imputato.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al capo c) dell’imputazione perché il fatto non è previsto dalla legge come reato ed elimina la relativa pena di un mese e dieci giorni di reclusione. Rigetta nel resto ricorso.
________________________________________________________
Studio Legale Avvocato Francesco Noto – Cosenza