Gli Ermellini adottano una esegesi improntata alle esigenze di celerità insite nella norma, ritenendo che, il provvedimento adottato all’esito del giudizio camerale ex art. 710 c.p.c., sia immediatamente esecutivo, e non allorquando spirati i termini di impugnativa, come invece previsto dalla disciplina generale adottata dall’art. 741 del codice di rito. CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. III CIVILE , SENTENZA 20 Marzo 2012, N° 4376
Svolgimento del processo
p.1. Il Tribunale di Civitavecchia, con sentenza del 24 settembre 2003, omologava la separazione consensuale fra i coniugi G.R. e V.A..Z. , ponendo a carico del primo un contributo di mantenimento per i tre figli minori, collocati presso la madre, di Euro 300,00 mensili oltre rivalutazione ISTAT annuale, decorrente dal 5 luglio 2003 al 5 dicembre 2005.
Con provvedimento del 23 dicembre 2005, pronunciato ai sensi dell’art. 710 c.p.c., lo stesso Tribunale modificava le condizioni di separazione, collocando i due figli maschi presso il padre e ponendo a carico della Z. un contributo di Euro 240,00 mensili.
p.2. In data 17 febbraio 2006 il G. otteneva il rilascio della formula esecutiva su quest’ultimo decreto e, quindi, notificava (per quello che si legge nel ricorso iscritto al n.r.g. 31434 del 2007, di cui appresso) il provvedimento alla Z. in data 22 marzo 2006.
La Z. , con citazione notificata il 31 marzo 2006, qualificando tale atto come “per opposizione all’esecuzione”, conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Civitavecchia il G. e chiedeva accertarsi l’inesistenza della sua qualità di titolo esecutivo, adducendo che al provvedimento del 23 dicembre 2003 essa non poteva riconoscersi, in quanto non era stato notificato al suo difensore ai sensi dell’art. 739, secondo comma, c.p.c., in modo da far decorrere il termine per il reclamo, onde il provvedimento non era divenuto esecutivo ai sensi dell’art. 741 c.p.c..
Nel relativo giudizio si costituiva il G. che contestava sia l’ammissibilità della domanda (per essere stata proposta come opposizione all’esecuzione prima della notificazione del precetto nonché, ove la si fosse qualificata alla stregua dell’art. 617 c.p.c., per la sua tardività), sia (nella prospettiva della qualificazione come opposizione all’esecuzione) la sua infondatezza, in quanto al provvedimento emesso all’esito del procedimento di cui all’art. 710 c.p.c., doveva riconoscesi, invece, natura di titolo esecutivo.
Nel corso del giudizio, con la memoria del 4 luglio 2006, l’opponente chiedeva dichiararsi la nullità dei precetti e del pignoramento frattanto rispettivamente intimati ed eseguiti in suo danno dal G. sulla base del provvedimento opposto, nonché dichiararsi comunque erronee le somme in essi indicate.
p.2.1. Con sentenza n. 152 del 15 febbraio 2008, il Tribunale, qualificata come modificazione della domanda consentita e tempestiva la doglianza contro il precetto ed il pignoramento e come domanda nuova quella concernente la contestazione sulle somme, rigettava l’opposizione quanto alla domanda originaria e alla successiva sua modificazione in quanto ritenuta ammissibile, mentre dichiarava inammissibile la domanda considerata come nuova.
Il Tribunale giustificava la decisione di rigetto dell’opposizione reputando che il provvedimento conclusivo del procedimento di cui all’art. 710 c.p.c. costituisse titolo esecutivo, non essendo ad esso applicabile l’art. 741 c.p.c..
p.2.2. Contro questa sentenza la Z. ha proposto, con notificazione perfezionatasi il 10 novembre 2008, ricorso straordinario ai sensi dell’art. 111, settimo comma, della Costituzione, affidato a tre motivi ed iscritto al n. r.g. 26470 del 2008.
Il G. non ha resistito.
p.3. Sempre sulla base del provvedimento del 23 dicembre 2005 in data 11 maggio 2006 il G. intimava alla Z. precetto per la somma di Euro 1.819,33 per il mantenimento dei due figli presso di lui collocati per i mesi di febbraio, marzo e aprile del 2006 e per spese straordinarie. Successivamente, in data 27 giugno 2006, il G. procedeva a pignoramento mobiliare dell’autovettura della Z. e quest’ultima proponeva opposizione all’esecuzione dinanzi al Tribunale di Civitavecchia prospettando nuovamente l’inesistenza della qualità di titolo esecutivo del provvedimento ai sensi dell’art. 710 c.p.c..
Il Tribunale sospendeva l’esecuzione e rimetteva per ragioni di valore la causa nel merito al Giudice di Pace di Civitavecchia, davanti al quale la Z. riassumeva chiedendo dichiararsi inesistente il titolo esecutivo e caducato il pignoramento, domandando in subordine la compensazione del credito di cui ad esso con altro controcredito fino a concorrenza, nonché domandando il risarcimento dei danni verificatisi in conseguenza dell’esecuzione.
p.3.1. Nella resistenza del G. , il Giudice di pace, con sentenza del 20 settembre 2007 (n. 964 del 2007), dopo avere disatteso l’eccezione, proposta dal medesimo, di litispendenza fra il giudizio e quello introdotto e pendente dinanzi al Tribunale, di cui s’è prima riferito, riteneva fondata la deduzione della mancanza nel provvedimento ai sensi dell’art. 710 c.p.c. della qualità di titolo esecutivo, per essere esso soggetto all’art. 741 c.p.c.. Accoglieva, pertanto l’opposizione della Z. . Dava atto della rinuncia dell’opponente alla domanda di compensazione (pagina 6, rigo 4-5) e rigettava la domanda di risarcimento dei danni.
p.3.2. Contro questa sentenza il G. in data 30 novembre 2007 ha proposto ricorso straordinario, affidato ad un unico motivo ed iscritto al n.r.g. 31434 del 2007.
La Z. ha resistito con controricorso.
p.4. In data 14 giugno 2006 la Z. aveva frattanto intimato al G. precetto per il pagamento della somma di Euro 9.949,52 in forza delle disposizioni patrimoniali contenute nel verbale di separazione omologato dalla sentenza del 24 settembre 2003, nel presupposto che esse fossero rimaste operative per non essere immediatamente efficace ed esecutivo il provvedimento ai sensi dell’art. 710 c.p.c., in quanto soggetto al regime di cui all’art. 741 c.p.c..
Il G. proponeva opposizione al precetto dinanzi al Tribunale di Civitavecchia, deducendo l’opposta tesi dell’immediata efficacia del provvedimento de quo, nonché assumendo che non era dovuta alcuna somma per il periodo successivo al febbraio 2004, giacché la domanda di modifica delle condizioni della separazione era stata proposta con ricorso del 24 marzo 2004 e da quella data si intendevano operanti le nuove disposizioni del provvedimento del 23 dicembre 2005. Inoltre sosteneva che anche le somme precettate fino al gennaio 2004 non erano dovute, perché da quella data egli aveva abbandonato l’abitazione coniugale provvedendo al mantenimento dei figli in via diretta.
Nella resistenza della Z. , il Tribunale, con sentenza del 7 marzo 2008 (n. 281 del 2008), disattendendo la prospettazione della medesima che il provvedimento ai sensi dell’art. 710 c.p.c. non fosse esecutivo, ha parzialmente accolto l’opposizione limitatamente alle somme relative al periodo successivo al maggio 2005 compreso, dando rilievo alla circostanza che il 4 maggio 2005 il Tribunale per i minorenni aveva disposto l’affidamento dei minori in modo difforme dalle precedenti condizioni fissate nella separazione consensuale.
p.4.1. Contro questa sentenza la Z. ha proposto ricorso per cassazione straordinario affidato a tre motivi ed iscritto al n.r.g. 1244 del 2009.
p.4.2. Il G. non ha resistito.
Motivi della decisione
p.1. Preliminarmente il Collegio, considerato che i ricorsi pongono fra le stesse parti una identica quaestio iuris, quella del regime del provvedimento di chiusura del procedimento di cui all’art. 710 c.p.c., ritiene che la connessione soggettiva e per identità di questione renda opportuna la riunione sia del ricorso n. 26740 del 2008, sia del ricorso n. 1244 del 2009 al ricorso 31434 del 2007, che è stato proposto per primo. La riunione è stata sollecitata anche dalla ricorrente nei ricorsi n. 26470 del 2008 e n. 1244 del 2009.
Si è disposto, pertanto, in conformità con separato provvedimento e si procede, dunque, all’esame congiunto dei tre ricorsi.
p.2. Il Collegio rileva, inoltre, in via preliminare, che il ricorso iscritto al n.r.g. 1244 del 2009 appare ritualmente notificato, in quanto se ne è tentata la notificazione al G. presso il domicilio eletto dal suo difensore, Avvocato Aldo A. Pazzaglia in data 8 gennaio 2009 ed ivi l’Ufficiale Giudiziario ha riscontrato di non poter notificare, per avere il difensore trasferito il domicilio. In data 9 gennaio 2009 la notificazione è stata effettuata presso la cancelleria del Tribunale di Civitavecchia e tale notificazione appare rituale, perché il detto Avvocato non era iscritto all’albo presso il detto Tribunale, bensì, come il Collegio accerta tramite consultazione telematica del sito del Consiglio Nazionale Forense, presso l’albo di Milano.
Ne deriva, alla stregua dei principi indicati da Cass. sez. un. 3818 del 2009 (ribadito da Cass. (ord.) n. 10212 del 2010 e da Cass. sez. un. n. 14494 del 2010), che, venuto meno per il trasferimento il domicilio eletto era necessario che si comunicasse l’eventuale nuovo domicilio, trattandosi di difensore operante fuori dal circondario di appartenenza. Mancando detta comunicazione il domicilio del detto Avvocato si doveva intendere fissato presso la cancelleria del Tribunale ai sensi dell’ari 82, secondo comma, del r.d. n. 37 del 1934.
Pertanto, la notificazione dell’indicato ricorso appare rituale.
§3. Con l’unico motivo del ricorso iscritto al n.r.g. 31343 del 2007, che, essendo cronologicamente anteriore agli altri dev’essere esaminato per primo, si denuncia “violazione di norme di diritto (art. 4 L. n, 898 del 1970, applicabile ex art. 23 della L. n. 74 del 1987 – art. 282 c.p.c.)”.
Vi si critica la sentenza del Giudice di Pace di Civitavecchia per avere ritenuto fondata l’opposizione proposta dalla Z. avverso il pignoramento mobiliare della sua autovettura eseguito il 27 giugno 2006 per la somma di Euro 1.819,33 a titolo di assegni di mantenimento dei mesi di febbraio, marzo, aprile 2006 in forza del decreto del Tribunale di Civitavecchia del 23 dicembre 2005 con cui erano state modificate le condizioni di separazione a norma dell’art. 710 c.p.c..
Erroneamente il Giudice di Pace avrebbe ritenuto che il decreto de quo non avesse qualità di titolo esecutivo, in quanto il regime della sua esecutività – come aveva ritenuto il Tribunale nell’ordinanza con cui aveva disposto la sospensione dell’esecuzione e rimesso la controversia nel merito allo stesso Giudice di pace – era soggetto alla norma dell’art. 741 c.p.c. e, dunque, non essendo stato dichiarato immediatamente esecutivo, all’inutile decorso del termine per il reclamo, che invece era stato proposto dalla Z. .
In particolare, erroneamente il Giudice di Pace avrebbe rifiutato di ritenere invece esecutivo il decreto ai sensi dell’art. 710, primo comma, c.p.c. reputando ad esso applicabile il regime di immediata esecutività dei provvedimenti di natura economica emessi con la sentenza dispositiva della separazione dei coniugi, risultane dall’estensione dell’applicabilità dell’art. 4, comma 14, della l. n. 898 del 1970, disposta dall’art. 23 della l. n. 74 del 1987. A sostegno dell’esecutività del decreto di chiusura del procedimento di cui all’art. 710 c.p.c. viene invocata Cass. n. 11042 del 1991, là dove, pur dando atto che con la legge n. 331 del 1988 il procedimento di modificazione delle condizioni della separazione fra coniugi era divenuto soggetto alle forme del procedimento camerale, con conseguente abbandono delle forme della cognizione piena, aveva riconosciuto che il procedimento conservava comunque carattere contenzioso e concluso che il decreto emesso a chiusura di esso aveva natura sostanziale di sentenza. Da tanto si fa discendere che al decreto fatto valere come titolo esecutivo trovava applicazione l’art. 282 c.p.c..
p.3.1. Nel suo controricorso la Z. deduce, invece, che, pur ammessa la qualificazione del decreto come una sostanziale sentenza, non ne deriverebbe la soggezione all’art. 282 c.p.c., in quanto il provvedimento resterebbe soggetto al regime speciale di acquisizione della forza esecutiva, di cui all’art. 741 c.p.c..
p.3.2. Il motivo è fondato.
p.3.2,1 Non ignora il Collegio che sulla questione che esso prospetta, ampiamente dibattuta in dottrina e sulla quale si registrano orientamenti contrastanti nella giurisprudenza di merito, di recente questa Corte, con la sua Prima Sezione, è intervenuta affermando il seguente principio di diritto: “Il provvedimento di modifica delle condizioni di separazione, previsto dall’art. 710 cod. proc. civ., non è immediatamente esecutivo, ma solo ove in tal senso sia disposto dal giudice ai sensi dell’art. 741 cod. proc. civ.: infatti, mentre l’art. 1 della novella 29 luglio 1988, n. 331 richiama espressamente la disciplina dei procedimenti in camera di consiglio, resta inapplicabile l’art. 4, comma 14, della legge 1 dicembre 1970, n. 898, il quale dispone la provvisoria esecutività della sentenza di primo grado pronunciata all’esito del giudizio di divorzio, regola estesa dall’art. 23 della legge 6 marzo 1987, n. 74 ai giudizi di separazione personale, ma non a quelli di modifica del regime di separazione”. (così Cass. n. 9373 del 2011).
Tale principio di diritto è stato affermato sulla base della seguente motivazione, che è opportuno richiamare: “Con un unico motivo, la ricorrente lamenta violazione della L. n. 898 del 1970, art. 4, comma 14, novellato, e L. n. 74 del 1977, art. 23. Afferma che, dal combinato disposto dei predetti articoli, deriverebbe l’efficacia immediata, senza necessità di una clausola di esecutorietà, del provvedimento di modifica delle condizioni di separazione, che dunque potrebbe valere come titolo esecutivo. La questione sollevata si inserisce nell’ampio e articolato dibattito dottrinale e giurisprudenziale sulle differenze e le consonanze – dei procedimenti di separazione e divorzio. La differente genesi storica di separazione e divorzio ha determinato la previsione delle rispettive discipline in testi normativi differenti: la separazione, quanto agli aspetti sostanziali è disciplinata dal codice civile (art. 150 c.c., e ss.), quanto agli aspetti processuali, dal codice di rito (art. 706 c.p.c. e ss.), mentre per il divorzio occorre riferirsi alla L. n. 898 del 1970. Le successive modifiche normative, la L. n. 151 del 1975, riforma del diritto di famiglia, che ha riguardato gli aspetti sostanziali della separazione e le L. n. 436 del 1978, e L. n. 74 del 1987, sul divorzio, non hanno condotto all’individuazione di regole comuni (quanto mai utili dal punto di vista processuale) tra i due istituti, malgrado da più parti ciò venisse ampiamente auspicato, per superare problemi di coordinamento tra le due discipline. Va qui ricordato che la richiamata L. n. 74 del 1987, art. 23, prevede l’estensione alla separazione della normativa processuale di cui all’art. 4 L. 898, in quanto applicabile, e comunque fino all’entrata in vigore del nuovo codice di rito. I profili processuali della separazione personale sono stati parzialmente rinnovati con L. n. 51 del 2006 (di conversione del D.L. n. 273 del 2005) e n. 80/2005 (di conversione del D.L. n. 35 del 2005, che ha pure novellato il testo della L. n. 898, art. 6); a sua volta la L. n. 54 del 2006, più comunemente nota in relazione alla previsione dell’affidamento condiviso, ha inserito un ultimo comma, all’art. 708 c.p.c., ed introdotto ex novo l’art. 709 ter c.p.c.: si tratta di previsioni espressamente dichiarate applicabili al giudizio di divorzio dall’art. 4 della predetta legge. Come si vede, una serie di modifiche molto numerose e “tormentate”. Tuttavia, ancora una volta, nonostante la volontà, a tratti palese, dei legislatore di procedere verso un omogeneità delle due discipline (processuali), l’unificazione non si è completamente raggiunta, ed alcune differenze permangono.
In tutto questo variegato contesto, parte della dottrina ha affermato che è stata posta in essere quella riforma del codice di rito, indicata nella citata L. n. 74 del 1987, art. 23, quale termine finale per la sua operatività (e quindi per l’estensione alla separazione della disciplina del divorzio, in relazione agli aspetti privi di regolamentazione). Appare del tutto condivisibile la soluzione opposta, proprio per la mancanza di un’organica revisione del codice di procedura civile. L’art. 710 c.p.c., regola in pochi tratti la disciplina dei procedimenti di modifica delle condizioni di separazione. A seguito della novella del 1988 (L. n. 331 del 1988, art. 1, si indicano esplicitamente per essi “le forme del procedimento in camera di consiglio”, e dunque si richiamano l’art. 737 c.p.c. e ss.. La predetta L. n. 74 del 1987, art. 23, da intendersi, come si è detto, ancora operante, estende ai giudizi di separazione personale, “in quanto compatibili”, le regole della L. n. 898, art. 4, ove si disciplina la procedura dei giudizi di divorzio: in particolare, l’art. 4, comma 11 (ora 14) precisa che, per la parte relativa ai provvedimenti di natura economica, la sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva, previsione anteriore alla generalizzata esecutorietà delle sentenze di primo grado, introdotta dalla L. n. 353 del 1990. Rimangono peraltro estranei alla previsione tanto la disciplina dei procedimenti di modifica del regime di divorzio, inserita nella L, n. 898, art. 9, quanto quella dei procedimenti di modifica delle condizioni di separazione di cui all’art. 710 c.p.c. Entrambi gli articoli richiamano espressamente la disciplina dei procedimenti in camera di consiglio (art. 737 c.p.c. e ss.), e di essa, dunque, anche la previsione dell’esecutorietà, solo ad opera del giudice (art. 744 c.p.c.). È da ritenere dunque che i provvedimenti di modifica delle condizioni di separazione (e di divorzio), non siano immediatamente esecutivi. Certo di fronte alla generalizzata esecutorietà delle sentenze di primo grado, tale carattere appare una sorta di residuo affatto eccezionale, in una materia come quella familiare che richiede tempestività e snellezza operativa. Difficile peraltro ipotizzare una questione di legittimità costituzionale al riguardo: i Giudici della Consulta non potrebbero che richiamare la scelta discrezionale del legislatore di attribuire ai procedimenti di modifica delle condizioni di separazione e divorzio, le forme di quelli in Camera di consiglio. Toccherebbe dunque al legislatore intervenire, secondo i voti di gran parte della dottrina. Nella specie, dunque, mancando una clausola di esecutorietà del provvedimento, questo non poteva valere come titolo esecutivo. Il ricorso va rigettato, in quanto infondato”.
p.3.2.2. Il Collegio ritiene, tuttavia, che la conclusione cui è pervenuta la Prima Sezione non sia condivisibile, perché è espressa sulla base di un approccio esegetico che non appare persuasivo, là dove attribuisce valore decisivo nell’esegesi dell’art. 710 c.p.c. sul punto della natura del provvedimento, cioè del decreto, che chiude il procedimento di modifica delle condizioni della separazione, alla questione della sopravvenienza o meno della condizione di cui all’art. 23, comma 1, della L. n. 74 del 1987, per escludere che l’applicabilità delle norme disciplinatrici del procedimento di scioglimento del matrimonio, proclamata da detta norma solo con il limite della compatibilità, sia venuta meno. Di modo che, soltanto se tale condizione fosse sopravvenuta si potrebbe ricostruire il regime di quel provvedimento alla stregua di quello apparecchiato dall’art. 4, comma 14 (già comma 11, secondo il testo della norma risultante dall’art. 8 della L. n. 151 del 1975 e vigente prima della riforma di cui al d.l. n. 35 del 205, convertito con modificazioni nella L. n. 80 del 2005) della L. n. 898 del 1970, che, com’è noto, attribuisce immediata efficacia esecutiva ai provvedimenti di contenuto economico contenuti nella sentenza di primo grado dispositiva dello scioglimento del matrimonio. Con la conseguenza che, fintante che quella sopravvenienza non si sia verificata e, dunque, si sia verificata una piena equiparazione di disciplina del procedimento di separazione a quello di divorzio, la compatibilità dell’applicazione del comma 14 dell’art. 4 al procedimento di modifica delle condizioni della separazione, dovrebbe escludersi perché la materia dell’efficacia del provvedimento di chiusura del detto procedimento sarebbe regolata dalla norma dell’art. 741 c.p.c..
p.3.2.3. Il punto che non convince in questa prospettazione è che il problema dell’immediata esecutività del provvedimento di chiusura del procedimento di cui all’art. 710 c.p.c., sembrava fin dalla sua introduzione da risolvere e sia ancora da risolvere domandandosi se poteva e doveva avere rilievo e se può e deve avere rilievo ai fini della sua soluzione proprio la disposizione dell’art. 23, comma 1, citata e, quindi, il rinvio con la clausola di compatibilità in esso previsto.
Ritiene, infatti, questo Collegio che invece il problema fosse risolvibile attraverso la stessa esegesi dell’art. 710 c.p.c. fin dalla sua introduzione e che la soluzione che si poteva ab origine prospettare abbia nel tempo acquisito ancora maggiore giustificazione.
Queste le ragioni.
Com’è noto, anteriormente all’introduzione del testo attuale dell’art. 710 c.p.c. il procedimento di modifica delle condizioni della separazione era disciplinato dalla norma con l’espressa previsione nel suo primo comma dell’applicabilità delle forme ordinarie del processo di cognizione, nelle quali, peraltro, il regime dell’esecutività della decisione di primo grado era quello del principio emergente dall’art. 282 c.p.c., che l’affidava ad un provvedimento del giudice su istanza di parte.
La norma dell’art. 710 nel testo attualmente vigente venne introdotta dal legislatore con la L. n. 331 del 1988 allo scopo di snellire le forme del procedimento e, quindi, in vista dell’accelerazione della tutela da essa assicurata. A questo scopo fu fatta la scelta del rito camerale nel quadro di una tendenza che gran parte della dottrina processualcivilistica denunciò come ennesima espressione della tendenza del legislatore a cameralizzare processi coinvolgenti vere e proprie situazioni di diritto soggettivo bisognose di tutela contenziosa e dunque, con oggettivo scostamento dalla logica per cui il processo camerale era stato almeno di norma immaginato dal legislatore del Codice del ’40.
Ora nel caso di specie era ed è da domandarsi, non diversamente che in molti altri casi di ricorso alla cameralizzazione, quale ne sia il significato e la risposta a tale quesito deve darsi dando rilievo innanzitutto a quanto il legislatore pur evocando le forme camerali ha inteso disciplinare direttamente o indirettamente in modo tale che l’applicazione al procedimento di tutte le norme del rito camerale risulti fatta espressamente o implicitamente in modo selettivo e non totale.
Ebbene i dati in proposito rilevanti nella disciplina introdotta nel 1988 e poi rimasta immutata sono numerosi e significativi di un rinvio alle forme camerali non pieno, ma con il limite della compatibilità con le previsioni espresse o implicite della norma.
Essi sono i seguenti:
a) in tanto nel primo comma l’oggetto di disciplina evocativo del procedimento camerale è expressis verbis riferito alla domanda, posto si dice che “le parti possono sempre chiedere con le forme dei procedimenti in camera di consiglio…”: questo evidenzia certamente in via diretta che la forma della domanda è quella del ricorso, prevista dall’art. 737 c.p.c., mentre, solo se il contenuto della norma si fermasse a tale previsione il rinvio a quelle forme sarebbe da leggere in modo integrale;
b) viceversa, il secondo ed il terzo comma dell’art. 710 c.p.c., contenendo disposizioni specificamene disciplinatrici di alcuni aspetti del procedimento, palesano necessariamente che il rinvio non è integrale e nel contempo, disciplinando detti commi taluni aspetti del procedimento e, quindi, necessariamente alcune “forme” di esso, pongono il problema del raccordo o nel senso della esclusione della loro applicabilità o nel senso del loro adattamento con quelle “forme” del procedimento camerale, le quali o siano disciplinate in modo incompatibile o, seppure non disciplinate in modo necessariamente incompatibile, possano convivere con le previsioni dei detti commi solo adattandosi ad esse;
c) in particolare, il secondo comma prevede come necessaria l’audizione delle parti, mentre, l’art. 738 c.p.c. prevede (almeno alla lettera: vedine, infatti, la lettura costituzionale proposta da Cass. n. 1 del) che il giudice “può assumere informazioni” e, quindi, l’audizione delle parti e, dunque, l’effettività dello svolgimento del contraddittorio nel corso del procedimento soltanto come eventuale;
d) sempre il secondo comma prevede l’eventualità dell’ammissione di mezzi istruttori con ciò evocando la disciplina dei mezzi probatori della cognizione piena e non un’istruzione sommaria e deformalizzata, qual è quella sottesa alle informazioni;
e) il terzo comma a sua volta stabilisce che “ove il procedimento non possa essere immediatamente definito, il tribunale può adottare provvedimenti provvisori e può ulteriormente modificarne il contenuto nel corso del procedimento”, il che significa che nell’ambito del procedimento si prevede il potere, anche officioso del giudice (posto che non si fa riferimento all’istanza di parte ed è consentaneo alla natura degli interessi coinvolti), di adottare provvedimenti anticipatoli della tutela che dovrà scaturire dalla decisione finale, laddove nello schema generale della tutela camerale come disciplinato dagli artt. 737 e ss. c.p.c. non è prevista alcuna possibilità di provvedimenti anticipatoli di tutela.
La regola esegetica che somministrano questi contenuti dell’art. 710 era ed è, allora, che, essendosi in presenza di un procedimento riguardo al quale il legislatore ha dettato una serie di previsioni del tutto eccentriche rispetto al procedimento camerale generale, l’evocazione delle forme camerali va intesa nel senso che l’applicazione delle norme di quel procedimento deve avvenire per tutto ciò che non è disciplinato nello stesso art. 710 c.p.c. e ciò sia direttamente, sia indirettamente, cioè per implicazione.
p.3.2.4. Alla stregua di tale criterio ermeneutico (di per sé giustificato per il modo di disciplina adottato dal legislatore, che ha omesso di rinviare sic et simpliciter agli artt. 737 e ss. c.p.c. e, evidentemente lo ha fatto proprio nella contemplazione delle particolari esigenze di contemperamento della scelta della tutela camerale con l’essere le situazioni coinvolte diritti soggettivi coinvolti nel procedimento in modo necessariamente, almeno in limine, contenzioso), era per sé fin dall’introduzione della norma doverosa un’opzione interpretativa che doveva rinvenire la disciplina del regime di esecutività del provvedimento di chiusura del procedimento come implicitamente regolata dal legislatore nello stesso art. 710 c.p.c., in modo da sottrarla all’operare dell’art. 741 c.p.c. e vederla regolata secondo una regola di immediata esecutività.
Invero, (a) se il legislatore aveva ritenuto di imporre una disciplina procedimentale che garantiva il contraddittorio, garantiva il diritto alla prova (e non un’istruzione sommaria) e, per l’ovvia esigenza di speditezza di tutela, consentiva al giudice di adottare provvedimenti provvisori e modificarli quando non fosse stato possibile definire il procedimento e, dunque, anche – all’evidenza – sulla base di una cognizione distinta da e minore di quella normale all’interno del procedimento e, pertanto, proprio per essersi prevista la garanzia di veri e propri mezzi istruttori, necessariamente improntata a cognizione sommaria, e (b) se implicazione necessaria e coessenziale alla provvisorietà non poteva che essere il carattere esecutivo di essi, appariva manifesto, per un’evidente esigenza di esegesi secondo il canone del legislatore non in contraddizione con se stesso, che quello stesso legislatore avesse inteso attribuire al provvedimento di chiusura del procedimento lo stesso carattere dell’immediata esecutività.
Il canone di coerenza dell’intentio legis esige, infatti, che se il legislatore consente una tutela sommaria anticipatoria e, quindi, se il suo oggetto implica l’esecuzione, nell’ambito di un certo procedimento, anche il provvedimento finale, al di là di un’espressa previsione, si intende regolato nel senso che consente tutela esecutiva immediata: ciò per la ragione che se la situazione giuridica tutelata con il procedimento esige tutela durante il suo svolgimento, a maggior ragione la esige alla sua chiusura.
Questa conseguenza esegetica appariva certamente come necessaria nel caso in cui il provvedimento definitivo fosse sopravvenuto dopo l’adozione di provvedimenti provvisori o di ulteriori provvedimenti modificativi e fosse stato di identico contenuto: sarebbe stata invero inspiegabile che il legislatore avesse inteso attribuire efficacia esecutiva a provvedimenti assunti all’esito di una cognizione sommaria e poi avesse inteso negare l’automatismo della tutela esecutiva, o meglio la permanenza della tutela esecutiva, una volta che il contenuto dei provvedimenti provvisori fosse stato confermato dal provvedimento definitivo.
Ma la suddetta esegesi si giustificava come necessitata anche nel caso in cui nel corso del procedimento non fossero stati adottati provvedimenti provvisori, perché sarebbe stato contraddittorio che il legislatore avesse voluto la possibilità di una tutela esecutiva immediata sulla base di un provvedimento provvisorio e, dunque, necessariamente emesso sulla base di una cognizione sommaria e non l’avesse voluta sulla base del provvedimento positivo adottato all’esito degli atti di istruzione e pertanto, con il pieno dispiegarsi del contraddittorio.
L’esegesi qui indicata si palesava per queste ragioni anche dovuta sul piano costituzionale, atteso che il principio dell’effettività della tutela giurisdizionale, desumibile dall’art. 24 della Costituzione in riferimento alla garanzia del diritto di azione implicava che alla valutazione del legislatore circa la necessità di una tutela sommaria anticipatoria esecutiva rispetto alla definizione del giudizio, necessariamente corrispondesse una valutazione di identica immediatezza di tutela esecutiva sulla base del provvedimento definitivo, sì da non tollerare l’operatività della diversa regola dell’art. 741 c.p.c..
Una volta introdotto l’art. 710 nel testo sostituito dalla L. n. 131 del 1988 il problema del regime del provvedimento definitivo del procedimento di modificazione delle condizioni della separazione appariva, dunque, risolto direttamente dallo stesso art. 710 e dall’adozione di un corretto criterio di raccordo di esso con la disciplina del procedimento camerale, sicché non occorreva fare alcun riferimento per individuare il senso del rinvio al procedimento camerale alla norma dell’art. 23, comma 1, della l. n. 74 del 1987 ed al criterio di compatibilità in esso previsto, ora riferito all’art. 710 c.p.c., per individuare quel regime come dissonane da quanto previsto all’art. 741 c.p.c..
D’altro canto, la stessa evocazione dell’art. 23 non poteva che suonare strana, tenuto conto che esso si riferiva alla disciplina del procedimento di separazione e non a quello di modificazione delle sue condizioni.
E semmai, la disciplina così ricostruita si presentava come del tutto omologa di quella del provvedimento definitivo del giudizio di divorzio e – stavolta proprio per il rinvio operato dall’art. 23 citato – di quello di separazione, per i quali nel testo allora vigente (quello introdotto dall’art. 8 della l. n. 151 del 1975), con scelta legislativa allora distonica rispetto alla norma generale dell’art. 282 c.p.c. sul regime dell’esecutività della sentenza di primo grado nel processo a cognizione piena, era prevista una immediata esecutività dei provvedimenti di natura economica (scilicet delle condanne pecuniarie) contenute nella sentenza.
p.3.2.5. Una volta sopravvenuta la novellazione dell’art. 282 c.p.c., operata dall’art. 33 della l. n. 353 del 1993 e sancita l’immediata esecutività della sentenze di primo grado recanti statuizioni condannatorie, il regime del provvedimento di definizione del procedimento di cui all’art. 710 c.p.c. (che ha forma di decreto, questa volta valendo il rinvio al primo comma dell’art. 737, che si coglie come implicazione del primo comma dell’art. 710 c.p.c., atteso che del problema quest’ultima norma non si occupa né con disposizioni espresse, né con disposizioni implicite, in quanto la forma del provvedimento non viene mai nominata) divenne, peraltro, ed è ora perfettamente sintonico con quello generale dell’immediata esecutività delle pronunce di primo grado (che si applica anche alle statuizioni condannatorie accessorie a pronuncia costitutiva, qual è quella di modificazione delle condizioni della separazione, dato che Cass. sez. un. n. 4059 del 2010 ha assegnato alla sua statuizione sull’efficacia delle condanne accessorie alla pronuncia costitutiva ai sensi dell’art. 2932 c.c. carattere limitato alla particolare fattispecie di cui a tale norma: si vedano in termini Cass. (ord.) n. 21849 del 2010; Cass. n. 16737 del 2011; Cass. n. 24447 del 2011).
p.3.2.6. Va avvertito che le conclusioni raggiunte si giustificano (come non ha mancato di rilevare una dottrina) sia per il procedimento di modificazione delle condizioni di una separazione pronunciata all’esito di un procedimento contenzioso, sia per il procedimento di modificazione delle condizioni di una separazione consensuale, atteso che l’art. 710 c.p.c. prevede una disciplina unica per l’uno e per l’altro caso e considerato che se, nel secondo caso, le modificazioni vengano rese sull’accordo delle parti, l’esecutività del provvedimento definitivo (da spendere se poi taluno dei coniugi non voglia osservarle) si giustifica a maggior ragione per il carattere lato sensu negoziale del provvedimento, mentre, se vengano rese a seguito di lite, viene meno qualsiasi rilievo della pregressa separazione consensuale.
p.3.3. Dalle superiori considerazioni, che giustificano il dissenso da Cass. n. 9373 del 2011 sopra citata (e condividono le critiche ad essa mosse dalla dottrina) e segnano adesione ad un conforme orientamento di parte della giurisprudenza di merito, discende l’enunciazione del seguente principio di diritto: “Il provvedimento di chiusura del procedimento di modifica delle condizioni di separazione (tanto consensuale che giudiziale), previsto dall’art. 710 cod. proc. civ., è immediatamente ed automaticamente esecutivo per quanto si desume all’interno dello stesso art. 710, restando, invece, esclusa la sua soggezione alla disciplina della norma generale del procedimento camerale, di cui all’art. 741 cod. proc. civ.”.
In base a tale principio di diritto, la sentenza impugnata con il ricorso iscritto al n.r.g. 31434 del 2007 dev’essere cassata.
La cassazione dev’essere disposta con rinvio, perché – come si evince dal ricorso introduttivo dell’opposizione davanti al Tribunale e venne reiterato nell’atto di citazione in riassunzione – la Z. aveva (punto d) del ricorso e punto b) dell’atto di riassunzione) contestato la debenza di talune somme precettate in quanto non dovute secondo il titolo ed è necessario che su tale punto il Giudice di Pace di pronunci, non avendolo fatto a seguito dell’accoglimento dell’opposizione riguardo alla contestazione sull’esistenza del titolo esecutivo (ed avendo, invece, deciso sia la domanda di compensazione sia quella di risarcimento danni, punti su cui la sentenza non è stata impugnata ed è passata in giudicato).
Il giudice di rinvio si designa nello stesso Giudice di Pace di Civitavecchia, che deciderà in persona di diverso magistrato addetto all’ufficio.
p.4. Va esaminato a questo punto il ricorso iscritto al n.r.g. 26470 del 208, il quale propone tre motivi.
p.4.1 Con il primo si denuncia “violazione dell’art. 12 disp.ni sulla legge in generale del c.c.; violazione ed errata applicazione degli artt. 739 e 741 c.p.c., violazione dell’art. 113 c.p.c., violazione dell’art. 282 c.p.c.; in riferimento all’art. 360 n. 3 c.p.c.”.
Vi si sostiene la tesi che nega la qualità di titolo esecutivo al decreto definitivo del procedimento di cui all’art. 710 c.p.c., sostanzialmente già esaminata a proposito del ricorso precedentemente sopra deciso, asserendosi che la tesi favorevole sarebbe contraria ai canoni interpretativi dell’art. 12 delle preleggi al codice civile e rilevandosi che lo stesso Tribunale di Civitavecchia nel provvedimento sull’istanza di sospensione dell’esecuzione emesso nell’ambito del giudizio cui si riferisce quel ricorso ed il Giudice di Pace di Civitavecchia nella sentenza con esso impugnata l’hanno disattesa.
Il motivo è infondato al lume delle considerazioni che sono state svolte a proposito del ricorso n. 31434 del 2007, non senza che si debba rilevare che il Tribunale di Civitavecchia è pervenuto alla stessa conclusione cui si è pervenuti all’esito di quelle considerazioni con un percorso motivazionale approfondito parzialmente identico (e facendosi carico del suo precedente orientamento).
p.4.2. Con il secondo motivo si denuncia “violazione ed errata applicazione dell’art. 474 c.p.c., e dell’art, 153 disp.ni attuaz.ne del c.p.c.; in riferimento all’art. 360 n. 3 c.p.c.”.
Vi si deduce che il Tribunale sarebbe pervenuto alla conclusione dell’esistenza della qualità di titolo esecutivo del provvedimento definitivo del giudizio di cui all’art. 710 c.p.c. attribuendo implicitamente natura di sentenza in senso sostanziale (sulla falsariga di Cass. n. 11042 del 1991, che sarebbe “sola e discutibile”) per equivalenza a quella di omologa della separazione consensuale o giudiziale e si sostiene che, tuttavia, se anche tale equivalenza fosse corretta, non ne deriverebbe l’applicabilità dell’art. 282 c.p.c. e la conseguenza che il provvedimento costituisca titolo esecutivo, in quanto non rientrante nella previsione dell’art. 474 c.p.c. e 153 disp. att. c.p.c..
Il motivo, quanto alla contestazione della premessa della qualificazione del provvedimento come sentenza in senso sostanziale, confligge con l’insegnamento di Cass. sez. un. n. 22238 del 2009, la quale, attribuendo ricorribilità in sede di legittimità proprio perché munito dei caratteri della definitività e decisorietà su diritti al decreto emesso sul reclamo dalla corte d’appello avverso il provvedimento (decreto) di cui all’art. 710 c.p.c., giustifica ampiamente la qualificazione di quest’ultimo allo stesso modo, pur nella soggezione al sistema impugnatorio interno al procedimento camerale. Qualificazione che è diretta derivazione del fenomeno come si è detto sotteso alla scelta del legislatore del 1988, che ha cameralizzato un processo su diritti, con scelta che non può, però, sacrificare la tutelabilità prevista dal settimo comma (in allora secondo) dell’art. 111 della Costituzione.
Inoltre, il rilievo della novella dell’art. 282 c.p.c., come s’è veduto esaminando il ricorso n. 31434 del 2007, è soltanto venuto a rafforzare e confermare un risultato ermeneutico già imposto antecedentemente.
p.4.3. Con il terzo motivo si denuncia “violazione dell’art. 112 c.p.c. per mancata pronuncia sugli effetti della decisione prescelta; in riferimento all’art. 360 n. 3 c.p.c.”.
Vi si lamenta che il Tribunale, una volta qualificato il decreto del 23 dicembre 2005 come titolo esecutivo e ritenuto – come emergerebbe dalla pagina nove della sentenza e si scrive nel ricorso – “che la memoria integrativa ex art. 183 c.p.c. della Sig.ra Z. è da considerarsi tempestiva, ed efficace la domanda ivi svolta di nullità del titolo esecutivo, dei conseguenti atti di precetto e pignoramento”, avrebbe dovuto ritenere che nella richiesta di declaratoria di nullità totale era compresa anche quella di nullità parziale e, pertanto, avrebbe dovuto considerare “il termine di decorrenza degli effetti del provvedimento dichiarato immediatamente esecutivo solo a partire dal 23/12/2005 e senza efficacia retroattiva”, mentre il precetto era stato intimato “a far data dal deposito del ricorso per modifica condizioni”. L’attribuzione al decreto di natura sostanziale di sentenza, infatti, non escludeva che si dovesse chiarire se esso aveva “l’efficacia di una normale sentenza”, cioè dispiegasse “i suoi effetti retroattivamente sin dall’inizio del giudizio”, tenuto conto che, mentre “i mutamenti di fatto avvenuti nel corso del giudizio sono del tutto irrilevanti sulla decisione, poiché la sentenza deve essere emessa con riferimento esclusivo al tempo della instaurazione del giudizio”, viceversa, gli effetti del decreto ai sensi dell’art. 710 c.p.c., “così come di tutti i provvedimenti in materia di famiglia, sono efficaci per il presente ed il futuro, giammai – salvo espressa indicazione del Giudice – ad efficacia retroattiva”.
p.4.3.1. Il motivo imputa in sostanza alla sentenza di non avere determinato da quando il ritenuto titolo esecutivo spiegava i suoi effetti e per tale ragione la sentenza sarebbe incorsa in una violazione dell’art. 112 c.p.c..
Il motivo presenta due gradate ragioni di inammissibilità.
La prima risiede nell’inosservanza dell’art. 366 n. 6 c.p.c. (norma costituente, com’è noto, il precipitato normativo del c.d. principio di autosufficienza), perché non si fornisce la specifica indicazione dell’atto processuale (in termini, da ultimo, Cass. sez. un. n. 22726 del 2011) – cioè la memoria ex art. 183 c.p.c. – nella quale sarebbe stata svolta la doglianza su cui si sarebbe omesso di decidere: infatti, non si riporta il contenuto di tale memoria per evidenziare quale fosse stata la richiesta in essa formulata su cui si sarebbe dovuto decidere.
La seconda ragione di inammissibilità risiede nella circostanza che il motivo non si correla all’effettiva ratio decidendi della sentenza impugnata.
Quest’ultima, ha, infatti, dopo avere ritenuto che la Z. non era incorsa nell’inosservanza delle preclusioni di cui all’art. 183 c.p.c., nel depositare la memoria del 4 luglio 2006, ha osservato quanto segue: “Purtuttavia – mentre devono ritenersi ammissibili (ma tuttavia infondate per gli stessi motivi sin qui esposti) le domande volte ad ottenere la declaratoria di nullità dei precetti e del pignoramento, nella parte in cui con tali domande si deduce lo stesso difetto di esecutività del titolo, lamentato con l’atto introduttivo della presente opposizione – le doglianze dirette dall’attrice agli atti di precetto, ed aventi riguardo all’erronea determinazione delle somme negli stessi indicate, appaiono inammissibili, esulando dall’originaria causa petendi e non potendo essere considerate semplici modificazioni della domanda inizialmente proposta”.
Come si vede, la sentenza impugnata si è pronunciata in rito e, pertanto imputarle di avere omesso di pronunciarsi non corrisponde alla sua motivazione, con la conseguenza che il motivo è inammissibile alla stregua del seguente consolidato principio di diritto: “Il motivo d’impugnazione è rappresentato dall’enunciazione, secondo lo schema normativo con cui il mezzo è regolato dal legislatore, della o delle ragioni per le quali, secondo chi esercita il diritto d’impugnazione, la decisione è erronea, con la conseguenza che, in quanto per denunciare un errore bisogna identificarlo e, quindi, fornirne la rappresentazione, l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito considerarsi nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo. In riferimento al ricorso per Cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un non motivo, è espressamente sanzionata con l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366 n. 4 cod. proc. civ.” (Cass. n. 359 del 2005, seguita da numerose conformi).
La ricorrente, in pratica, avrebbe dovuto denunciare l’erronea qualificazione della sua doglianza come mutatio libelli e non invece come consentita emendatio.
È da avvertire che, attesa la natura in rito della pronuncia in parte qua, sulla questione posta dalla Z. la sentenza non spiegherà effetti di giudicato sostanziale una volta che essa si sarà consolidata per effetto di questa decisione.
p.4.4. Il ricorso iscritto al n.r.g. 26470 del 2008 è, conclusivamente, rigettato.
p.5. Con il primo ed il secondo motivo del ricorso iscritto al n.r.g. 1244 del 2009 (proposto contro una sentenza che sulla questione di diritto del rapporto fra art. 710 e art. 741 c.p.c. svolge considerazioni identiche a quella impugnata con il ricorso precedentemente esaminato ed è stata estesa dallo stesso magistrato) si prospettano argomenti identici a quelli che sostenevano il primo motivo del ricorso n. 26470 del 2008 e, quindi, la loro infondatezza deriva dalle stesse ragioni enunciate riguardo ad essi.
p.5.1. Con il terzo motivo si denuncia “violazione dell’art. 12 disp.ni sulla legge in generale c.c. e dell’art. 2909 c.c.; in riferimento ah”art. 360 n. 3 c.p.c.”.
Vi si censura la sentenza impugnata là dove ha ritenuto – interpretando il decreto del 2 dicembre 2005, posto dal G. a base dell’esecuzione minacciata con il precetto del 27 giungo 2006, opposto con l’opposizione che a dato luogo al relativo procedimento – di rigettare l’opposizione quanto alle somme precettate come dovute a far tempo dal maggio 2005.
Il motivo è inammissibile ai sensi dell’art. 366 n. 6 c.p.c. (sempre nella lettura fornitane dalla citata sentenza delle Sezioni Unite), perché, pur trascrivendo, sia pure con puntini sospensivi il contenuto del decreto de quo, omette l’indicazione specifica di esso quanto alla specificazione del se e dove fosse stato prodotto nel giudizio di merito e – soprattutto – del se e dove sia stato prodotto in questa sede di legittimità, al fine di consentire a questa Corte di esaminarlo per verificare la fondatezza o meno del motivo e particolarmente della prospettazione per cui il Tribunale in sede di provvedimento ai sensi dell’art. 710 c.p.c. avrebbe provveduto soltanto a far tempo dal 23 dicembre 2005.
p.5.2. Il ricorso n. 1244 del 2009 è, pertanto, rigettato.
p.6. L’oggetti va incertezza della questione principale esaminata con riguardo a tutti i ricorsi, dimostrata anche dall’avere questo Collegio disatteso il precedente di altra Sezione sopra citato, è ragione di compensazione delle spese nel giudizio di cassazione iscritto al n.r.g. 31434 del 2007, mentre non è luogo a provvedere sulle spese degli altri due giudizi.
P.Q.M.
La Corte, dato atto che con separate ordinanze pronunciate a seguito dell’odierna camera di consiglio è stata disposta la riunione al ricorso iscritto al n.r.g. 31434 del 2007, dei ricorsi iscritti ai n.r.g. 26470 del 2008 e 1244 del 2009, decidendo sui ricorsi riuniti, così provvede: a) accoglie il ricorso iscritto al n.r.g. 31434 del 207 e cassa la sentenza con esso impugnata, con rinvio al Giudice di Pace di Civitavecchia, che deciderà in persona di diverso magistrato addetto all’ufficio; b) rigetta i ricorsi iscritti ai n.r.g. 26470 del 2008 e 1244 del 2009; c) compensa le spese del giudizio di cassazione n. 31434 del 2007. Nulla sulle spese degli altri due giudizi di cassazione.
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Studio Legale Avvocato Francesco Noto – Cosenza