L’ Alto Consesso rivisita l’anteriore orientamento espresso dalle Sezioni Unite con sentenza N° 23458 del 2005, ritenendo ammissibile il gravame imperniato quale unico motivo sulla prescrizione maturata nella fase di merito e non rilevata dalla Corte territoriale. Ove la causa estintiva del reato intervenga una volta spirata la fase di merito, l’impugnativa interposta non può essere circoscritta come nell’ipotesi precedente, ma importa l’obbligo per il prevenuto di costruire plurime censure che mantengano “vivo” il rapporto processuale. CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. V PENALE – SENTENZA 12 Gennaio 2012, n.595
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. V PENALE – SENTENZA 12 gennaio 2012, n.595 – Pres. Ferrua – est. Marasca
Svolgimento del processo – Motivi della decisioneR.G. e F.F. venivano condannati dal tribunale di Taranto con sentenza del 27 marzo 2008 per il delitto di tentato furto aggravato commesso il (OMISSIS).
La corte di appello di Lecce, ignorando la richiesta della difesa di dichiarare non doversi procedere per intervenuta prescrizione, confermava la decisione di primo grado.
Con il ricorso per cassazione R. e F. deducevano la violazione dell’art. 157 c.p., artt. 129, 529 e 531 c.p.p., essendosi il reato estinto per prescrizione dopo la pronuncia del tribunale e prima di quella della corte di appello.
Lamentavano, inoltre, che non si era tenuto conto delle richieste della difesa nel giudizio di appello e che l’estratto contumaciale non era stato notificato agli imputati.
Prescindendo dalla censura concernente la pretesa violazione dell’art. 548 c.p.p., sia per la genericità della deduzione perchè non è stato precisato se l’eccezione riguardasse la notifica dell’estratto contumaciale della sentenza di primo o di secondo grado, sia perchè in ogni caso gli imputati hanno proposto tempestive impugnazioni ad entrambe le sentenze, va detto che il principale motivo di ricorso è fondato.
Nel caso di specie è applicabile la nuova disciplina della prescrizione introdotta dalla L. n. 251 del 2005 perchè, pur essendo il reato stato commesso nel (OMISSIS), la disciplina vigente è più favorevole e risulta applicabile, tenuto conto della lettera della citata Legge, art. 10 e della interpretazione fornitane dalla Corte costituzionale e dalla Corte di cassazione, perchè la sentenza di primo grado è stata pronunciata il 27 marzo 2008 – a distanza di circa dieci anni dal fatto -, ovvero dopo l’entrata in vigore della L. n. 251 del 2005.
Cosicchè a norma del vigente art. 157 c.p. il termine prescrizionale risulta essere decorso il 5 giugno 2007 e con la sospensione di mesi dieci e giorni undici dovuta ad astensione degli avvocati dalle udienze il 16 aprile 2008.
Quindi, come si è già detto, il termine prescrizionale non era ancora decorso al momento della pronuncia della sentenza di primo grado, mentre era decorso da oltre due anni quando veniva emessa la sentenza di secondo grado.
La prescrizione, dunque, avrebbe dovuto essere dichiarata, anche di ufficio, dalla corte di appello.
Nel caso di specie il difensore aveva eccepito la estinzione per prescrizione in sede di conclusioni del dibattimento di appello, ma la corte ha ignorato tale eccezione, presumibilmente ritenendola, sia pure implicitamente, generica o, erroneamente, infondata.
Pur prescindendo dalla detta eccezione, di cui non si trova traccia in sentenza, va detto che la corte di merito avrebbe dovuto affibbia dovuto rilevare di ufficio la intervenuta estinzione per prescrizione.
Il ricorso, che mira a far valere soltanto la prescrizione, essendo l’altro motivo generico e manifestamente infondato, è, come già detto, fondato. Questo Collegio, naturalmente, non ignora che le SS.UU. di questa Corte (sentenza n. 23428 del 2005, ric. Bracale, RV 231164), hanno stabilito che sia inammissibile il ricorso per cassazione diretto unicamente a far valere la prescrizione, anche se maturata prima della sentenza di appello, ma ritiene di non condividere il predetto insegnamento per i motivi che di seguito si espongono. E’ innanzitutto noto come le SS.UU siano giunte progressivamente alla affermazione del principio di diritto sopra sintetizzato. Prendendo le mosse dalla sentenza Cresci (1994) e ‘procedendo’ quindi attraverso le pronunzie Piepoli (1999), De Luca (2000), e Cavalera (2001), esse sono giunte, in pratica, a minare la distinzione tra inammissibilità originaria e inammissibilità sopravvenuta, fino ad affermare (sentenza Bracale, appunto) che ‘la intervenuta formazione di un giudicato sostanziale, derivante dalla formazione di un atto di impugnazione invalido …preclude ogni possibilità, sia di far valere una causa di non punibilità precedentemente maturata, sia di rilevarla di ufficio’; questo in quanto ‘l’intrinseca incapacità dell’atto invalido di accedere davanti al giudice della impugnazione’ comporta che il fatto storico (nella specie: il decorso del tempo necessario a prescrivere il reato) rimanga giuridicamente irrilevante, atteso che, comunque, il giudicato (sostanziale) – proprio per la inammissibilità del ricorso che non da ingresso alla fase di legittimità – si è già formato. E così, dunque, come la sentenza De Luca (RV 217266) aveva escluso che fosse deducibile/rilevabile la prescrizione maturata successivamente alla proposizione del ricorso (ma, naturalmente, prima della sua trattazione), come la sentenza Cavalera (RV 219531) aveva escluso che fosse deducibile/rilevabile la prescrizione maturata prima della proposizione del ricorso, ma dopo la sentenza di appello, la sentenza Bracale (RV 231164) ha, per così dire, concluso il percorso, affermando che non è deducibile/rilevabile nel giudizio di cassazione la prescrizione maturata – addirittura – prima della sentenza di appello, ma non eccepita o dichiarata di ufficio tempestivamente.
Sennonchè le stesse SS. UU., nella sentenza da ultimo citata, hanno ammesso che esistono ipotesi in cui il giudice, pur in presenza di una impugnazione inammissibile, mantiene intatta la sua cognizione e, conseguentemente, la possibilità/necessità di rendere una pronunzia che non sia meramente enunciativa della predetta inammissibilità.
Tale è il caso della morte dell’imputato (art. 150 c.p.), dell’abolitio criminis, della dichiarazione di incostituzionalità della norma incriminatrice della quale si dovrebbe fare applicazione.
Orbene, è da chiedersi se la ipotesi della prescrizione maturata prima delle conclusione della fase di merito, comportando l’obbligo (nel caso concreto, disatteso) per il giudice procedente di riconoscerla, non possa essere fondatamente assimilata alle tre predette ipotesi in cui risulta travolta la stessa inammissibilità della impugnazione.
Al proposito non può farsi a meno di rilevare che la funzione e la stessa ratto dell’istituito della prescrizione militano in tal senso.
Col decorso del tempo, viene meno l’interesse dello Stato a esercitare la pretesa punitiva, anche perchè si affievolisce, fino a scomparire, la possibilità che la pena svolga la sua funzione (rectius: le sue funzioni); ciò, per altro, non consegue a un apprezzamento in concreto del giudicante, ma trova attuazione grazie a un automatico meccanismo presuntivo, in base al quale, il trascorrere del tempo (di quel tempo, previsto in astratto dalla legge) comporta l’estinzione del reato.
Se, dunque, il giudice non può fare a meno di costatare la morte del reo, non si vede come possa fare a meno di riconoscere la ‘morte del reato’. Per altro, come è stato notato dalla più attenta dottrina, la prescrizione ha anche un suo fondamento costituzionale: essa costituisce una garanzia personale per l’individuo, che non può (non deve) essere esposto, al di là di ragionevoli limiti temporali, al ‘rischio’ di essere penalmente punito per fatti commessi anni addietro.
Di tanto sembra aver preso atto l’ordinamento, se è vero come è vero, che la prescrizione può esser riconosciuta (e dunque può spiegare la sua efficacia) anche al di fuori della instaurazione di un rapporto processuale in senso stretto.
Invero, come è noto, l’art. 411 c.p.p. inibisce l’inizio dell’azione penale in presenza di un reato estinto (anche per prescrizione, naturalmente). Ciò sta certamente a provare che la prescrizione, come evento giuridico conseguente a un evento naturale (il trascorrere del tempo), deve operare per il solo fatto di essersi verificata.
Oltretutto, per ritornare al caso in scrutinio (prescrizione maturatasi prima della sentenza di appello), è da dire che appare violativo del principio costituzionale di eguaglianza il fatto che, pur in presenza della medesima situazione di fatto e di diritto, in un caso – quando la parte la eccepisca o il giudice la rilevi – l’imputato si avvalga della estinzione del reato, nell’altro – quando tale fatto ‘sfugga’ tanto alla parte, quanto al giudice – lo stesso debba andare incontro a una condanna e alla esecuzione di una pena.
Si vuoi dire: la disparità di trattamento non apparirebbe minimamente giustificabile perchè, in ultima analisi, sarebbe riconducibile a un (grave) error judicis.
Tutto ciò premesso, può sostenersi, a giudizio del Collegio, che esiste una sostanziale differenza tra la prescrizione maturata prima della sentenza di appello, da un lato, e quella maturata dopo di essa o, addirittura, dopo la proposizione del ricorso per cassazione, dall’altro.
La prima è oggettivamente venuta ad esistenza prima della conclusione della fase di merito e il giudicante avrebbe dovuto rilevarla. Proprio in virtù dell’automatismo presuntivo del ‘meccanismo’ previsto dal legislatore, al giudice (di merito) altro non si chiedeva che un mero atto di ricognizione, atto che non ha – colpevolmente – compiuto.
Negli altri due casi, conclusosi il giudizio di merito, il successivo spirare del tempo necessario per determinare (in astratto) la prescrizione del reato può non aver rilievo, se l’imputato non è in grado di sottoporre al giudice di legittimità una impugnazione che sia tale da ‘mantenere in vita’ il rapporto processuale. In tal caso, l’atto di ricognizione riguarda, appunto, la ‘morte’ di tale rapporto (e dunque la inoperatività della prescrizione), non la ‘morte’ del reato (per prescrizione), che, per quel che si è detto, essendo sopraggiunta dopo la fase di merito, non può aver rilievo (per un precedente assolutamente identico vedi Cass., Sez. 5, 11 luglio-27 ottobre 2011, Varone, non pubblicata). Per i motivi sopra esposti la sentenza impugnata va annullata senza rinvio.
La corte di appello di Lecce, ignorando la richiesta della difesa di dichiarare non doversi procedere per intervenuta prescrizione, confermava la decisione di primo grado.
Con il ricorso per cassazione R. e F. deducevano la violazione dell’art. 157 c.p., artt. 129, 529 e 531 c.p.p., essendosi il reato estinto per prescrizione dopo la pronuncia del tribunale e prima di quella della corte di appello.
Lamentavano, inoltre, che non si era tenuto conto delle richieste della difesa nel giudizio di appello e che l’estratto contumaciale non era stato notificato agli imputati.
Prescindendo dalla censura concernente la pretesa violazione dell’art. 548 c.p.p., sia per la genericità della deduzione perchè non è stato precisato se l’eccezione riguardasse la notifica dell’estratto contumaciale della sentenza di primo o di secondo grado, sia perchè in ogni caso gli imputati hanno proposto tempestive impugnazioni ad entrambe le sentenze, va detto che il principale motivo di ricorso è fondato.
Nel caso di specie è applicabile la nuova disciplina della prescrizione introdotta dalla L. n. 251 del 2005 perchè, pur essendo il reato stato commesso nel (OMISSIS), la disciplina vigente è più favorevole e risulta applicabile, tenuto conto della lettera della citata Legge, art. 10 e della interpretazione fornitane dalla Corte costituzionale e dalla Corte di cassazione, perchè la sentenza di primo grado è stata pronunciata il 27 marzo 2008 – a distanza di circa dieci anni dal fatto -, ovvero dopo l’entrata in vigore della L. n. 251 del 2005.
Cosicchè a norma del vigente art. 157 c.p. il termine prescrizionale risulta essere decorso il 5 giugno 2007 e con la sospensione di mesi dieci e giorni undici dovuta ad astensione degli avvocati dalle udienze il 16 aprile 2008.
Quindi, come si è già detto, il termine prescrizionale non era ancora decorso al momento della pronuncia della sentenza di primo grado, mentre era decorso da oltre due anni quando veniva emessa la sentenza di secondo grado.
La prescrizione, dunque, avrebbe dovuto essere dichiarata, anche di ufficio, dalla corte di appello.
Nel caso di specie il difensore aveva eccepito la estinzione per prescrizione in sede di conclusioni del dibattimento di appello, ma la corte ha ignorato tale eccezione, presumibilmente ritenendola, sia pure implicitamente, generica o, erroneamente, infondata.
Pur prescindendo dalla detta eccezione, di cui non si trova traccia in sentenza, va detto che la corte di merito avrebbe dovuto affibbia dovuto rilevare di ufficio la intervenuta estinzione per prescrizione.
Il ricorso, che mira a far valere soltanto la prescrizione, essendo l’altro motivo generico e manifestamente infondato, è, come già detto, fondato. Questo Collegio, naturalmente, non ignora che le SS.UU. di questa Corte (sentenza n. 23428 del 2005, ric. Bracale, RV 231164), hanno stabilito che sia inammissibile il ricorso per cassazione diretto unicamente a far valere la prescrizione, anche se maturata prima della sentenza di appello, ma ritiene di non condividere il predetto insegnamento per i motivi che di seguito si espongono. E’ innanzitutto noto come le SS.UU siano giunte progressivamente alla affermazione del principio di diritto sopra sintetizzato. Prendendo le mosse dalla sentenza Cresci (1994) e ‘procedendo’ quindi attraverso le pronunzie Piepoli (1999), De Luca (2000), e Cavalera (2001), esse sono giunte, in pratica, a minare la distinzione tra inammissibilità originaria e inammissibilità sopravvenuta, fino ad affermare (sentenza Bracale, appunto) che ‘la intervenuta formazione di un giudicato sostanziale, derivante dalla formazione di un atto di impugnazione invalido …preclude ogni possibilità, sia di far valere una causa di non punibilità precedentemente maturata, sia di rilevarla di ufficio’; questo in quanto ‘l’intrinseca incapacità dell’atto invalido di accedere davanti al giudice della impugnazione’ comporta che il fatto storico (nella specie: il decorso del tempo necessario a prescrivere il reato) rimanga giuridicamente irrilevante, atteso che, comunque, il giudicato (sostanziale) – proprio per la inammissibilità del ricorso che non da ingresso alla fase di legittimità – si è già formato. E così, dunque, come la sentenza De Luca (RV 217266) aveva escluso che fosse deducibile/rilevabile la prescrizione maturata successivamente alla proposizione del ricorso (ma, naturalmente, prima della sua trattazione), come la sentenza Cavalera (RV 219531) aveva escluso che fosse deducibile/rilevabile la prescrizione maturata prima della proposizione del ricorso, ma dopo la sentenza di appello, la sentenza Bracale (RV 231164) ha, per così dire, concluso il percorso, affermando che non è deducibile/rilevabile nel giudizio di cassazione la prescrizione maturata – addirittura – prima della sentenza di appello, ma non eccepita o dichiarata di ufficio tempestivamente.
Sennonchè le stesse SS. UU., nella sentenza da ultimo citata, hanno ammesso che esistono ipotesi in cui il giudice, pur in presenza di una impugnazione inammissibile, mantiene intatta la sua cognizione e, conseguentemente, la possibilità/necessità di rendere una pronunzia che non sia meramente enunciativa della predetta inammissibilità.
Tale è il caso della morte dell’imputato (art. 150 c.p.), dell’abolitio criminis, della dichiarazione di incostituzionalità della norma incriminatrice della quale si dovrebbe fare applicazione.
Orbene, è da chiedersi se la ipotesi della prescrizione maturata prima delle conclusione della fase di merito, comportando l’obbligo (nel caso concreto, disatteso) per il giudice procedente di riconoscerla, non possa essere fondatamente assimilata alle tre predette ipotesi in cui risulta travolta la stessa inammissibilità della impugnazione.
Al proposito non può farsi a meno di rilevare che la funzione e la stessa ratto dell’istituito della prescrizione militano in tal senso.
Col decorso del tempo, viene meno l’interesse dello Stato a esercitare la pretesa punitiva, anche perchè si affievolisce, fino a scomparire, la possibilità che la pena svolga la sua funzione (rectius: le sue funzioni); ciò, per altro, non consegue a un apprezzamento in concreto del giudicante, ma trova attuazione grazie a un automatico meccanismo presuntivo, in base al quale, il trascorrere del tempo (di quel tempo, previsto in astratto dalla legge) comporta l’estinzione del reato.
Se, dunque, il giudice non può fare a meno di costatare la morte del reo, non si vede come possa fare a meno di riconoscere la ‘morte del reato’. Per altro, come è stato notato dalla più attenta dottrina, la prescrizione ha anche un suo fondamento costituzionale: essa costituisce una garanzia personale per l’individuo, che non può (non deve) essere esposto, al di là di ragionevoli limiti temporali, al ‘rischio’ di essere penalmente punito per fatti commessi anni addietro.
Di tanto sembra aver preso atto l’ordinamento, se è vero come è vero, che la prescrizione può esser riconosciuta (e dunque può spiegare la sua efficacia) anche al di fuori della instaurazione di un rapporto processuale in senso stretto.
Invero, come è noto, l’art. 411 c.p.p. inibisce l’inizio dell’azione penale in presenza di un reato estinto (anche per prescrizione, naturalmente). Ciò sta certamente a provare che la prescrizione, come evento giuridico conseguente a un evento naturale (il trascorrere del tempo), deve operare per il solo fatto di essersi verificata.
Oltretutto, per ritornare al caso in scrutinio (prescrizione maturatasi prima della sentenza di appello), è da dire che appare violativo del principio costituzionale di eguaglianza il fatto che, pur in presenza della medesima situazione di fatto e di diritto, in un caso – quando la parte la eccepisca o il giudice la rilevi – l’imputato si avvalga della estinzione del reato, nell’altro – quando tale fatto ‘sfugga’ tanto alla parte, quanto al giudice – lo stesso debba andare incontro a una condanna e alla esecuzione di una pena.
Si vuoi dire: la disparità di trattamento non apparirebbe minimamente giustificabile perchè, in ultima analisi, sarebbe riconducibile a un (grave) error judicis.
Tutto ciò premesso, può sostenersi, a giudizio del Collegio, che esiste una sostanziale differenza tra la prescrizione maturata prima della sentenza di appello, da un lato, e quella maturata dopo di essa o, addirittura, dopo la proposizione del ricorso per cassazione, dall’altro.
La prima è oggettivamente venuta ad esistenza prima della conclusione della fase di merito e il giudicante avrebbe dovuto rilevarla. Proprio in virtù dell’automatismo presuntivo del ‘meccanismo’ previsto dal legislatore, al giudice (di merito) altro non si chiedeva che un mero atto di ricognizione, atto che non ha – colpevolmente – compiuto.
Negli altri due casi, conclusosi il giudizio di merito, il successivo spirare del tempo necessario per determinare (in astratto) la prescrizione del reato può non aver rilievo, se l’imputato non è in grado di sottoporre al giudice di legittimità una impugnazione che sia tale da ‘mantenere in vita’ il rapporto processuale. In tal caso, l’atto di ricognizione riguarda, appunto, la ‘morte’ di tale rapporto (e dunque la inoperatività della prescrizione), non la ‘morte’ del reato (per prescrizione), che, per quel che si è detto, essendo sopraggiunta dopo la fase di merito, non può aver rilievo (per un precedente assolutamente identico vedi Cass., Sez. 5, 11 luglio-27 ottobre 2011, Varone, non pubblicata). Per i motivi sopra esposti la sentenza impugnata va annullata senza rinvio.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata senza rinvio per essere il reato estinto per intervenuta prescrizione.
_____________________________________________
Studio Legale Avvocato Francesco Noto – Cosenza