La Corte di Legittimità torna sul ristoro iure hereditatis per lesione cui consegue la morte, commisurando il danno biologico alla sofferenza provata dalla vittima. Viene altresì rimarcato l’obbligo di personalizzare l’entità del ristoro ed il carattere contrattuale dell’obbligo di sicurezza ex art. 2087 c.c. CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. LAVORO , SENTENZA 16 febbraio 2012 N° 2251
Con ricorso al giudice del lavoro di Venezia F.G. e F.S. convenivano in giudizio Fincantieri s.p.a. per ottenere il risarcimento dei danni patiti a seguito del decesso del loro padre F.P.U. , già dipendente negli anni dal 1955 al 1960 e dal 1969 al 1974 di Cantieri Navali Breda s.p.a., incorporata dalla società convenuta, assumendo che il predetto era deceduto a causa di neoplasia polmonare (mesotelioma), causata dall’inalazione delle fibre di amianto presenti nell’ambiente di lavoro e dalla mancanza di idonei strumenti di prevenzione del rischio.
2.- Il Tribunale del lavoro si dichiarava incompetente per i danni azionati iure proprio e, autorizzata la chiamata in causa di Assicurazioni Generali s.p.a., assicuratore di Fincantieri s.p.a., condannava quest’ultima a risarcire ai ricorrenti il danno biologico e morale subito dal de cuius nella misura di Euro 230.958, rigettando la domanda di garanzia.
3.- Proponevano appello principale Fincantieri e appello incidentale i F. ; resisteva anche in secondo grado Assicurazioni Generali. La Corte d’appello di Venezia con sentenza 9.1.07 accoglieva parzialmente l’impugnazione principale e, rigettata quella incidentale, condannava Fincantieri a pagare la minor somma di Euro 123.000.
4.- La Corte di merito affermava la responsabilità del datore di lavoro per violazione dell’art. 2087 c.c. e dell’obbligo di adottare idonee misure di prevenzione del rischio, a fronte della riconosciuta nocività dell’ambiente per la diffusione di fibre di amianto liberate a causa dell’uso di tale materiale nei cantieri di costruzione ed allestimento delle navi, di cui era conosciuta l’alta pericolosità, e la cui inalazione si poneva in nesso causale con il decesso del F. . In particolare, sul piano del nesso eziologico della condotta, la (peraltro non provata) inalazione di sostanza nociva in ambienti frequentati in espletamento di precedenti rapporti di lavoro non escludeva la responsabilità di Fincantieri, atteso che il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell’equivalenza delle condizioni, per cui assume efficienza causale ogni antecedente che abbia contribuito all’evento.
5.- Circa la quantificazione del danno, la Corte riteneva in discussione solo il risarcimento del danno biologico e morale sofferto dal defunto, rivendicato dai figli a titolo successorio e maturato nel periodo tra il manifestarsi della malattia e il decesso, prescindendo quindi dai profili di danno patrimoniale (danno emergente e lucro cessante). Il giudice, tenuto conto della condizione personale del F. , rapportava al periodo di inabilità temporanea totale (due anni e tre mesi) i criteri di valutazione media adottati nei distretti di Venezia-Trento-Trieste e liquidava il danno biologico in Euro 82.000 (pari ad Euro 100 per ogni giorno di malattia) ed il danno morale nella misura della metà del danno biologico, per una somma complessiva di Euro 123.000.
6.- Riteneva, infine, insussistente la garanzia dell’assicuratore in quanto la malattia che aveva colpito il F. era stata causata dall’esposizione alle fibre di amianto negli anni da 1969 a 1974 e quindi in momento anteriore alla vigenza della polizza assicurativa.
7.- Propone ricorso per cassazione Fincantieri, cui rispondono F.G. e F.S. con controricorso e ricorso incidentale, a sua volta contrastato con controricorso dalla ricorrente principale. Non ha svolto attività difensiva Assicurazioni Generali s.p.a. Entrambe le parti costituite hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
8.-1 due ricorsi debbono essere riuniti ai sensi dell’art. 335 c.p.c..
9.- I motivi di ricorso proposti dalla ricorrente principale Fincantieri possono essere sintetizzati come segue.
9.1.- Carenza di motivazione, in quanto il dato della concentrazione della fibre di amianto cui il F. sarebbe stato esposto nell’ambiente di lavoro non è desumibile dalla relazione del consulente di ufficio, né dalla Consulenza tecnica per l’accertamento dei rischi professionali dell’INAIL in data 23.12.96, avente ad oggetto la rilevazione di detta concentrazione ai fini della concessione dei benefici contributivi previsti dalla legge n. 257 del 1992, dalla quale risulterebbe anzi l’esclusione del lavoratore dalle zone di esposizione del cantiere, svolgendo egli, quale dirigente, una funzione amministrativa che lo collocava spazialmente nella zona degli uffici. Sarebbero stati, inoltre, omessi congrui riferimenti alla relazione del consulente di parte.
9.2.- Carenza di motivazione in ordine alle conoscenze relative alla pericolosità dell’amianto a tutto il 1974, non avendo il giudice considerato che fino a quell’anno mancava nella letteratura scientifica, come segnalato dallo stesso consulente di ufficio, ogni conoscenza circa la pericolosità dell’esposizione a dosi di materiale inferiori alla concentrazione di 2,5 ff/cmc e che, pertanto, fino ad allora la nocività del materiale non era prevedibile. Nella pronunzia impugnata sarebbe riscontrabile non solo detta mancanza di approfondimento, ma anche un errore tecnico, in quanto a paradigma dello stato delle conoscenze dell’epoca circa la nocività si fa riferimento ad una situazione diversa: quella dell’asbestosi in luogo di quella del mesotelioma. Sarebbero, inoltre, incongrui i richiami a casi già presi in esame dalla giurisprudenza, anche di legittimità, in quanto attinenti a situazioni del tutto diverse a quella in cui verteva il F. .
9.3.- Violazione degli artt. 2087 e 1453 c.c., nonché degli artt. da 18 a 21 del d.P.R. 19.3.56 n. 303 (difesa contro le polveri) e carenza di motivazione, in quanto il giudice ha ritenuto che il datore fosse tenuto ad adottare misure di prevenzione in presenza di non apprezzabili esposizioni di ignota pericolosità, al punto da ritenere obbligatorio un intervento prevenzionale di rimozione delle polveri in presenza di “minime particelle” di materiale invisibili ad occhio nudo. Il contenuto dell’obbligo di sicurezza va determinato alla luce della massima sicurezza tecnologica possibile sul piano concreto, venendo altrimenti a configurarsi un’ipotesi di responsabilità oggettiva o, con particolare riferimento all’aspetto della polverosità dell’ambiente, di responsabilità per la mancata adozione di misure di prevenzione palesemente inidonee sul piano tecnico.
9.4.- Carenza di motivazione circa l’eziologia del mesotelioma, nonché violazione degli artt. 40-41 c.p. e dell’art. 1223 c.c. Il convincimento che l’accumulo delle dosi inalate abbia favorito lo sviluppo della malattia è valido per l’asbestosi, ma non anche per il mesotelioma, che trova causa nell’inalazione di poche fibre senza che siano rilevanti le esposizioni successive. Se è vero che il tumore è causato solo dalla prima dose inalata 35-38 anni prima della sua manifestazione, la malattia sarebbe stata contratta presso altro datore di lavoro, ovvero in periodo storico in cui il F. non era stato impiegato presso Fincantieri ed il giudice avrebbe errato a ritenere che il comportamento di Breda-Fincantieri avesse determinato l’insorgere del mesotelioma. In ogni caso, sul piano della causalità, il giudice non avrebbe considerato l’inutilità (se non la nocività) del rimedio della ventilazione degli ambienti impregnati di fibre di amianto, in quanto la movimentazione delle stesse ne avrebbe aumentata la capacità aggressiva, e la scarsa efficacia dei dispositivi di protezione individuale (quali le mascherine).
9.5.- Carenza di motivazione circa il preteso inadempimento del datore all’obbligo di formazione e informazione individuale delle maestranze, atteso che esso non era ipotizzabile per l’assenza di cognizioni tecniche circa la pericolosità del materiale e per la mancanza di consapevolezza sulla sua nocività.
9.6.- Violazione degli artt. 2087, 2697, 1218 c.c., sostenendosi che, stante la situazione di non conoscibilità della situazione di rischio, il lavoratore che agisce in sede contrattuale per il risarcimento del danno ex art. 2087 c.c. è onerato della prova dell’inadempimento del datore di lavoro e, quindi, dell’esistenza del fattore di nocività e dell’assenza dei fattori di protezione.
9.7.- Violazione dell’art. 1227 c.c. in combinato disposto con l’art. 4 del d.P.R. 27.4.55 n. 547, rilevandosi che, in ragione della posizione sopraordinata occupata (ricoprendo egli funzioni di “dirigente di esercizio”) e dei poteri di organizzazione e supervisione riconosciutigli, il F. era qualificabile come preposto alla sicurezza e come tale era tenuto all’osservanza di tutte le disposizioni in materia, di modo che egli avrebbe dovuto ritenersi quantomeno concorrente nella causazione dell’evento dannoso.
9.8.- Violazione degli artt. 1362-1363, 1365-1366, 1369-1370 e carenza di motivazione a proposito della mancanza di copertura assicurativa perché, secondo il giudice, la malattia derivava da esposizione realizzatasi in epoca (1969-74) anteriore alla stipula della polizza (decorrente dal 31.12.87), mentre la clausola n. 6 delle condizioni particolari, estendeva l’assicurazione della responsabilità civile verso i dipendenti “ai sensi del d.P.R. 30.6.65 n. 1124… a condizione che le malattie professionali… siano conseguenza di fatti… avvenuti durante il periodo di assicurazione”, ed inoltre la clausola n. 14 delle stesse condizioni, esplicitava l’intenzione delle parti di estendere la garanzia “per ogni e qualsiasi responsabilità civile verso terzi ad essa [Fincantieri] derivante in dipendenza di tutto quanto forma oggetto della presente polizza”.
10.- La prima censura (contenuta nei motivi primo e secondo del ricorso, nn. 9.1 e 9.2) mossa dalla difesa di parte ricorrente alla sentenza impugnata è quella di carente motivazione in punto di nocività dell’ambiente in cui l’ing. P.U..F. svolse la sua prestazione di lavoro. Tale carenza deriverebbe dall’erronea valutazione da parte del giudice di merito delle conoscenze scientifiche esistenti all’epoca della prestazione circa la nocività dell’esposizione dell’organismo umano alle particelle di amianto e, in particolare, da una non esauriente considerazione della situazione specifica, in relazione alla posizione lavorativa del predetto che, espletando mansioni tecnico-amministrative a contenuto dirigenziale, non era comunque soggetto ad esposizioni dirette.
10.1.- Questa Corte ha già posto in rilievo che, sul piano legislativo, da epoca ben anteriore agli anni settanta era affermata la pericolo sita della lavorazione dell’amianto.
Cass. 9.5.98 n. 4721 richiama al riguardo fonti remote, quali: a) r.d. 14.6.909 n.442, recante il regolamento per il T.U. della legge per il lavoro delle donne e dei fanciulli, che all’art. 29 tab. B n.12, includeva la filatura e tessitura dell’amianto tra i lavori insalubri o pericolosi; b) d.lgten. 6.8.916 n.1136, art.36, tab. B, n.13, recante il regolamento per l’esecuzione della legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli; c) r.d. 7.8.936 n.1720 che, approvando le tabelle indicanti i lavori vietati ai fanciulli e alle donne minorenni, prevedeva alla tab. B i lavori pericolosi, faticosi ed insalubri, tra cui la lavorazione dell’amianto, limitatamente alle operazioni di mescola, filatura e tessitura (n. 5). Le fonti più recenti richiamate dalla stessa giurisprudenza sono: d) la legge delega 12.02.55 n.52 (art. 1, lett. F); e) il d.P.R. 19.03.56 n.303; f) il d.P.R. 20.03.56 n. 648; g) il regolamento 21.07.60 n.1169, che all’arti prevede che la presenza di amianto nei materiali di lavorazione possa dar luogo, avuto riguardo alle condizioni delle lavorazioni, ad inalazione di polvere di silice libera o di amianto tale da determinare il rischio.
La stessa giurisprudenza, inoltre, ha posto in evidenza come detta pericolo sita sia evidenziata anche dalla norma che prevede l’attribuzione del premio supplementare stabilito dall’art. 153 del T.U. n. 1124 del 1965, per le lavorazioni per le quali è obbligatoria l’assicurazione contro la silicosi e l’asbestosi (ali. 8), per le quali è presupposto un grado di concentrazione di agenti patogeni superiore a determinati valori minimi (secondo Cass. 20.08.91 n. 8970).
Nel caso di specie, anche la ricorrente, seppure con minore analiticità, ha tenuto conto della preesistente legislazione prevenzionistica, per osservare che la stessa non era mirata alla prevenzione del rischio mesotelioma, di cui rimase vittima il F. , ma più in generale delle conseguenze dannose di altra malattia professionale, quale l’asbestosi. In tal senso, anzi, denunzia l’errore tecnico in cui sarebbe incorso il giudice, il quale avrebbe impropriamente assimilato le conseguenze dell’asbestosi a quelle del mesotelioma.
Tale obiezione, pur suggestiva, è tuttavia priva di pregio, in quanto quella legislazione, di per sé già diretta ad evidenziare il contenuto fortemente nocivo della lavorazione dell’amianto, è stata letta dal giudice di merito alla luce della letteratura scientifica conosciuta all’epoca in cui si svolse la prestazione lavorativa, dalla quale lo stesso ha tratto la conclusione che in quel momento fosse ormai dato acclarato che l’inalazione di particelle pur minime di amianto potesse dar luogo (secondo i tempi propri della malattia) all’insorgere del mesotelioma.
Tale iter argomentativo seguito dal giudice di merito, sul piano metodologico, è stato ritenuto congruo dalla giurisprudenza della Corte di cassazione; si vedano al riguardo le sentenze 23.05.03 n. 8204 e 14.01 05 n. 644, citate dal giudice di merito, e, da ultimo, Cass. 23.09.10 n. 20142, la quale ritiene congruamente motivata la pronunzia di merito che rigetta la domanda di risarcimento per mancanza di prova circa la conoscenza della nocività per esposizione ricadente nel periodo 1953-1962, avendo il giudice accertato che i primi studi scientificamente validi sull’argomento erano comparsi in Italia solo dalla metà degli anni sessanta.
10.2.- Per quel che riguarda l’ambiente specifico di lavoro interessato dalla prestazione del F. , il giudice di merito ha compiuto un congruo accertamento di fatto, incensurabile in sede di legittimità, accertando come il predetto, in ragione del contenuto tecnico del suo ruolo dirigenziale, trascorresse almeno il settanta per cento del suo tempo lavorativo nel cantiere (a bordo della nave in costruzione o nelle officine) e come “le operazioni di taglio dei materiali coibentanti… provocavano dispersione di materiale che stazionava sui piani di calpestio, che periodicamente veniva asportato per il grosso, rimanendo comunque in parte a terra sui piani di calpestio”.
Le valutazioni coerentemente si fondono con le risultanze della consulenza tecnica di ufficio, la quale, assieme alle valutazioni di stretto carattere medico-legale (secondo quanto sostenuto dalla stessa parte ricorrente, v. ricorso alle pagg. 24-25), espone in termini particolarmente crudi i gravi indici di concentrazione di particelle riscontrati nelle operazioni di cantieristica navale dalle rilevazioni scientifiche compiute nei primi anni settanta. Tali elementi di fatto, afferenti lo specifico ambiente di lavoro, il tipo di lavorazione ivi svolto, le risultanze di carattere scientifico e l’ampio quadro legislativo a carattere prevenzionistico sopra evidenziato (considerato anche dal giudice di merito), danno corpo ad una motivazione congrua ed esauriente, che supera le censure mosse dalla ricorrente.
11.- I motivi dal terzo al settimo (nn. da 9.3 a 9.7) sono infondati e vanno esaminati alla luce della situazione di fatto accertata dal giudice di merito a proposito della nocività dell’ambiente di lavoro in cui il F. svolse la sua prestazione.
11.1.- All’epoca di svolgimento del rapporto di lavoro del dante causa dei ricorrenti era nota la pericolosità delle fibre dell’amianto impiegato nelle lavorazioni cui il predetto era addetto, di modo che rispetto al rischio alle stesse intrinseco si imponeva l’adozione di misure idonee a ridurre il rischio, in ottemperanza alla norma di cui all’art. 2087 c.c. Tale norma, come noto, avendo carattere di norma di chiusura del sistema antinfortunistico, non è circoscritta alla violazione di regole d’esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma deve ritenersi volta a sanzionare, anche alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l’omessa predisposizione di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di venire a conoscenza e di indagare sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico (v. le citate sentenze n. 20142/10 e 644/05).
La responsabilità del datore di lavoro di cui all’art. 2087 è di natura contrattuale, per cui, ai fini del relativo accertamento, sul lavoratore che lamenti di aver subito a causa dell’attività lavorativa svolta un danno alla salute, incombe l’onere di provare l’esistenza del danno e la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro elemento, mentre grava sul datore di lavoro — una volta che il lavoratore abbia provato le predette circostanze — l’onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo (giurisprudenza costante, v. da ultimo Cass. 17.02.09 n. 3788).
Quanto all’incidenza del rapporto di causalità, nel caso di specie trova applicazione la regola dell’art. 41 c.p., per la quale il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell’equivalenza delle condizioni, principio secondo il quale va riconosciuta l’efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell’evento, salvo il temperamento previsto nello stesso art. 41 c.p., in forza del quale il nesso eziologico è interrotto dalla sopravvenienza di un fattore sufficiente da solo a produrre l’evento, tale da far degradare le cause antecedenti a semplici occasioni (Cass. 9.09.05 n. 17959).
11.2.- Parte ricorrente sostiene che, nel fare applicazione di questi principi, il giudice di merito sarebbe incorso in una serie di errori, dapprima configurando a carico del datore una vera e propria responsabilità oggettiva, avendo imposto un comportamento prevenzionale di contenuto indefinibile in quanto diretto a prevenire un rischio di contenuto ignoto, non tenendo conto che prima di essere impiegato presso Breda-Fincantieri il F. aveva lavorato presso altre aziende del settore e, soprattutto, che il rimedio a suo avviso indispensabile (la ventilazione degli ambienti) si sarebbe risolto in un motivo di accrescimento della nocività.
11.3.- Tale impostazione è, innanzitutto, frutto di una erronea configurazione della responsabilità che l’art. 2087 c.c. pone a carico dell’imprenditore. La responsabilità non ha nulla di oggettivo, ma rappresenta uno dei contenuti del contratto di lavoro, costituito dall’obbligo di predisporre tutte le misure e le cautele idonee a preservare l’integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto del concreto tipo di lavorazione e del connesso rischio (v. anche Cass. 1.02.08 n. 2491). In ragione di tale obiettivo, correttamente il giudice di merito ha ritenuto che la semplice rimozione dei residui della lavorazione dell’amianto non fosse sufficiente a rendere salubre l’ambiente di lavoro, in ragione della conosciuta nocività delle fibre volativi liberate dal materiale di amianto e che l’omissione di idonee misure di questo tipo (consistenti non solo nell’adozione di specifici dispositivi di sicurezza, ma anche nella diversa organizzazione delle operazioni di lavoro) costituisse violazione dell’obbligo di sicurezza.
11.4.- Quanto alla eventualità che l’inalazione delle fibre di amianto da cui è derivata la malattia fosse avvenuta presso altre aziende del settore ove il F. aveva prestato la sua opera, il giudice di merito ha ritenuto non provato che il lavoratore fosse stato esposto alle fibre presso altra azienda e, comunque, che anche ove ciò fosse avvenuto l’esposizione presso Breda-Fincantieri avrebbe procurato un “accumulo dell’effetto patogenetico” da cui sarebbe derivato il radicamento della malattia ancora allo stato latente e l’accellerazione del suo innesco.
Tale affermazione esclude tanto la carenza di motivazione, che il vizio di violazione di legge dedotti dal ricorrente (v. n. 9.4), atteso che punto essenziale del passaggio motivazionale (v. pagg. 26-27) è che non è stata acquisita prova dell’esposizione presso l’azienda in cui il F. aveva lavorato tra il 1960 ed il 1969 (una sorta di finestra tra i due periodi di occupazione presso Breda cantieri, relativi agli anni 1955-60 e 1969-74) e che, in ogni caso, le valutazioni in punto di eziologia della malattia sono conformi al principio dell’equivalenza delle condizioni, sopra enunziato. La circostanza che in un inciso motivazionale il giudice di merito abbia ad abundantiam affermato che (anche) l’asbestosi si aggrava con il mantenimento dell’esposizione non altera la congruità e la correttezza della motivazione.
11.5.- Quanto alla pretesa inidoneità dei presidi di prevenzione che, ad avviso del giudice, avrebbero dovuto essere adottati nell’azienda e che, ove posti in essere, avrebbero aumentato (secondo la visione di parte ricorrente) la nocività dell’ambiente, deve osservarsi che il giudice (pagg. 25-26) ha menzionato alcuni dati emersi nel corso dell’istruttoria a proposito dell’uso delle mascherine, dell’assenza degli aspiratori, dell’uso incongruo dei mezzi di rimozione delle polveri, solo per evidenziare il mancato corretto utilizzo dei presidi disponibili presso l’azienda, senza escludere, tuttavia che altri e diversi strumenti potessero e dovessero essere utilizzati. La censura al riguardo mossa dal ricorrente (v. parte finale del quarto motivo, n. 9.4) è, dunque, frutto di una non corretta lettura della sentenza impugnata.
11.6.- Quanto al preteso concorso colposo del lavoratore (v. n. 9.7), deve rilevarsi che il giudice di merito ha evidenziato (pag. 31) come non sia provato che il F. fosse in possesso di effettivi poteri di supervisione e di organizzazione della produzione, tali da consentirgli di poter effettivamente incidere sul grado di sicurezza dell’ambiente di lavoro, ai sensi dell’art. 4 del d.P.R. 27.4.55 n. 547, che fissa gli obblighi del datore di lavoro, dei dirigenti e dei preposti che eserciscono, dirigono o sovraintendono all’attività lavorativa. È del resto noto che l’attribuzione ad un soggetto della qualità di “preposto”, ai fini del suo assoggettamento agli obblighi previsti di detto art. 4, va fatta, più che in base alle formali qualificazioni giuridiche, con riferimento alle mansioni effettivamente svolte nell’ambito dell’impresa (Cass. 6.11.00 n. 14440 e 20.08.96 n. 7669).
12.- È infondato, infine, anche l’ottavo motivo di ricorso, formulato a proposito della carente interpretazione del contratto con cui Fincantieri aveva assicurato la propria responsabilità verso i dipendenti, dalla quale sarebbe derivato il rigetto della domanda di garanzia proposta nei confronti dell’assicuratore (v. n. 9.8).
Il giudice di merito, rilevato che la malattia era derivata dall’inalazione delle fibre di amianto nel periodo 1969-1974 e che la polizza aveva decorrenza dal 31.12.87, ha assegnato preminente rilievo alla clausola dell’art. 6, la quale rendeva operante la garanzia ove la malattia fosse conseguenza di fatti “avvenuti durante il periodo di assicurazione”. Parte ricorrente sostiene la parzialità di questa lettura, in quanto basata sul solo testo contrattuale, mentre invece la clausola avrebbe dovuto essere interpretata alla luce di quanto previsto dall’art. 14 delle condizioni particolari di polizza, ove le parti avevano pattuito di dare al contratto “l’interpretazione più estensiva a favore dell’assicurato”. Ove opportunamente considerata, questa pattuizione avrebbe consentito l’estensione della garanzia assicurativa anche ai fatti anteriori al periodo di vigenza della polizza.
Il motivo è inammissibile, atteso che viene censurata l’interpretazione della polizza sotto un profilo che non era stato dedotto in secondo grado, ove – secondo quanto emerge dalla sentenza impugnata (pag. 32), sul punto incontestata – nel motivo di appello diretto contro l’interpretazione data dal primo giudice all’art. 6, era dedotta la erronea applicazione dell’appendice di polizza n. 12 del 31.12.91, cui la clausola del detto art. 14 non può essere ricollegata per mancanza di idonei elementi di collegamento.
13.- In conclusione, infondati tutti i motivi, il ricorso principale deve essere rigettato.
14.-1 motivi dedotti dai ricorrenti incidentali F.G. e F.S. possono essere sintetizzati come segue.
14.1.- Il primo motivo deduce violazione dell’art. 1226 c.c. con riguardo alla liquidazione equitativa del danno biologico. I ricorrenti condividono la considerazione del giudice di merito che nella fattispecie l’unico danno biologico risarcibile è quello correlato all’inabilità temporanea per il tempo di permanenza in vita, ma contestano il percorso argomentativo adottato per la sua liquidazione, in quanto ritengono che avrebbe dovuto essere valutata la natura del danno biologico (nella sua particolare configurazione terminale) e che il giudice nel fare ricorso alle tabelle medie di liquidazione, avrebbe dovuto adattare nella quantificazione del risarcimento i valori così determinati al caso di specie. Nella sostanza le parti sollecitano la personalizzazione in melius del danno da inabilità temporanea assoluta, mediante correttivi al metodo tabellare, sulla base della corretta qualificazione della lesione subita dall’ing. F. in termini di danno biologico terminale.
14.2.- Il secondo motivo deduce violazione dell’art. 1226 c.c. e del diritto all’integrale risarcimento del danno morale. In caso di violazione dell’art. 2087 c.c. al lavoratore deve liquidarsi, oltre il danno biologico, anche il danno morale, integrando la violazione dei doveri salvaguardati da detta norma gli estremi del reato. Anche il danno morale, in questo caso ha una configurazione terminale, in considerazione dell’alto grado di personalizzazione della componente risarcitoria; tuttavia, la Corte veneziana di questo non ha tenuto conto, dato limitandosi a risarcire il danno morale in misura percentuale (la metà) del danno biologico, senza nessuna considerazione della gravità del fatto-reato. Nella determinazione equitativa del risarcimento sarebbe, pertanto, pretermesso il canone della proporzionalità tra pregiudizio subito e risarcimento concesso.
14.3.- Il terzo motivo deduce violazione dell’art. 112 c.p.c. e del diritto all’integrale risarcimento, con riguardo all’omissione della pronunzia in proposito di danno esistenziale. Il petitum proposto al giudice prevedeva la liquidazione del danno biologico, del danno morale e del danno esistenziale, nonché del danno da agonia; su questi ultimi però, senza motivazione, non si sono pronunziati né il primo, né il secondo giudice.
14.4.- Con il quarto ed ultimo motivo è dedotta violazione dell’art. 429 c.p.c. e carenza di motivazione, in quanto il giudice di appello, a differenza del primo giudice, ha omesso ogni pronunzia circa il diritto alla rivalutazione ed agli interessi.
15.- Procedendo all’esame preliminare del terzo motivo (n. 14.3) per ragioni di consequenzialità logica, deve rigettarsi la censura inerente l’omessa pronunzia in punto di danno esistenziale e di danno da agonia, atteso che su queste voci di danno non si era pronunziato neppure il primo giudice e che, pertanto, sul punto avrebbe dovuto essere proposto specifico motivo di appello. Considerato che l’esame dell’atto d’appello incidentale proposto da F.G. e F.S. , qui consentito in ragione del vizio denunziato, evidenzia che al riguardo non fu proposta impugnazione, sul punto deve ritenersi inammissibile il ricorso per cassazione, essendosi formato il giudicato.
In ogni caso, deve rilevarsi che la giurisprudenza di legittimità intervenuta successivamente alla sentenza impugnata, ha posto in evidenza che l’art. 2087 ex. inserisce nell’area del rapporto di lavoro interessi non suscettivi di valutazione economica (quali l’integrità fisica e la personalità morale), di modo che la lesione apportata a tali interessi dall’inadempimento del datore all’obbligo di sicurezza (c.d. danno-conseguenza) impone il risarcimento del danno non patrimoniale. Tale lesione (per il caso venga toccata l’integrità fisica, per quel che qui interessa) impone il risarcimento secondo le modalità del danno biologico, intendendosi in questa categoria di danno ricompresa il c.d. danno esistenziale (Cass., S.u., 11.11.08 n. 26972).
16.- Passando all’esame dei motivi primo e secondo del ricorso incidentale, deve premettersi che, non essendo stata proposta sul punto impugnazione dalla soccombente Fincantieri, pur di fronte all’unicità del danno non patrimoniale, non si pone questione circa la possibilità di procedere o meno – in relazione alla fattispecie specifica ed al pregiudizio alla salute derivata a F.U. dalla malattia – a liquidazione del danno biologico separata da quella del danno morale. Sarebbe, quindi, ultroneo il richiamo dei criteri al riguardo enunziati dalla giurisprudenza di legittimità (v. la già richiamata sentenza delle Sezioni unite n. 26972 del 2008).
16.1.- I due motivi sono fondati nella parte in cui censurano la sentenza impugnata per aver proceduto a liquidazione del danno in maniera automatica, sulla base della meccanica applicazione delle tabelle di liquidazione del danno biologico, senza tener conto adeguato della situazione soggettiva del soggetto danneggiato. La giurisprudenza di legittimità, infatti, ha evidenziato come in caso di lesione dell’integrità fisica che abbia portato ad esito letale, la vittima che abbia percepito lucidamente l’approssimarsi della fine attivi un processo di sofferenza psichica particolarmente intensa che qualifica il danno biologico e ne determina l’entità sulla base non già (e non solo) della durata dell’intervallo tra la lesione (o, come nel caso di specie, la manifestazione conclamata della malattia) e la morte, ma dell’intensità della sofferenza provata (Cass. 18.01.11 n. 1072 e 14.02.07 n. 3260). Il risarcimento di tale danno (che è reclamabile dagli eredi) impone, pertanto, un criterio di personalizzazione del danno, che, escluso ogni meccanismo semplificato di liquidazione automatica tenga conto, pur nell’ambito di criteri predeterminati, delle condizioni personali e soggettive del lavoratore e delle particolarità del caso concreto (Cass. 21.04.11 n. 9238).
16.2.- Il giudice di merito, pur dando atto che tra la diagnosi della malattia ed il decesso erano intercorsi due anni e tre mesi e che trattavasi di stato di malattia terminale ed incurabile, descrivendo la particolare e gravissima situazione medico-psichica in cui il F. era caduto, ha liquidato equitativamente, a titolo di risarcimento, 100 Euro per ogni giorno di malattia per il danno biologico, ridotti della metà per il danno morale. Circa le modalità di tale quantificazione, il giudice non ha, tuttavia, fornito alcuna specifica indicazione dell’iter logico seguito, né ha dato conto del criterio di valutazione adottato per quantificare il risarcimento dei gravi patimenti sopportati dalla vittima, salvo indicare un generico aumento degli importi adottati per il risarcimento del danno biologico negli uffici giudiziali del Triveneto.
Tale carente valutazione integra il denunziato vizio di legittimità e impone l’accoglimento dei due indicati motivi di censura.
17.- È infondato, invece, il quarto motivo di ricorso incidentale (n. 14.4), con cui si censura la sentenza di appello per omessa pronunzia in punto di rivalutazione ed interessi della somma capitale liquidata a titolo di risarcimento. Il giudice di appello si è, infatti, limitato a ridurre la misura del risarcimento, confermando nel resto la sentenza di primo grado, la quale aveva esplicitamente indicato che alla somma liquidata avrebbero dovuto essere aggiunti “rivalutazione monetaria ed interessi legali dalla data della domanda giudiziale”. Dal coordinamento delle due pronunzie emerge, quindi, che anche il giudice di appello ha previsto che oltre la somma liquidata a titolo di risarcimento fossero dovuti rivalutazione ed interessi.
18.- In conclusione, debbono essere rigettati il ricorso principale ed i motivi terzo e quarto del ricorso incidentale, con accoglimento del primo e del secondo motivo dello stesso ricorso incidentale.
La sentenza impugnata deve essere cassata nei limiti dell’accoglimento e la causa deve essere rimessa al giudice indicato in dispositivo, il quale procederà a nuovo esame, facendo applicazione del seguente principio di diritto: in caso di lesione dell’integrità fisica conseguente a malattia occorsa al lavoratore per la violazione dell’obbligo di sicurezza posto a carico del datore di lavoro ex art. 2087 c.c., ove dalla malattia sia derivato l’esito letale e la vittima abbia percepito lucidamente l’approssimarsi della fine attivando un processo di sofferenza psichica, l’entità del danno non patrimoniale (il cui risarcimento è reclamabile dagli eredi) deve essere determinata sulla base non già (e non solo) della durata dell’intervallo tra la manifestazione conclamata della malattia e la morte, ma dell’intensità della sofferenza provata, delle condizioni personali e soggettive del lavoratore e delle altre particolarità del caso concreto.
Il giudice di rinvio procederà anche alla regolazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte, riuniti i ricorsi, così provvede:
– rigetta il ricorso principale;
– accoglie i motivi primo e secondo del ricorso incidentale, rigettando il terzo ed il quarto;
– cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Venezia in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
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Studio Legale Avvocato Francesco Noto – Cosenza