Il lavoratore reintegrato e non ancora reinserito presso il proprio posto di lavoro, può essere licenziato per denigrare sui social il proprio datore?
La risposta è positiva, e la condotta denigratoria del dipendente verso la propria azienda, dopo la reintegra e prima della ripresa dell’attività lavorativa, costituisce giusta causa di licenziamento.
È quanto statuito dalla Corte di Cassazione nella recente Ordinanza, la N° 13764 del 17/05/2024. La Suprema Corte, infatti, è stata chiamata ad occuparsi di un caso relativo un dipendente licenziato per aver denigrato la società datrice mediante un post su Facebook a seguito della reintegrazione nel posto di lavoro disposta dal Tribunale a seguito dell’impugnazione di un primo licenziamento precedentemente intimatogli. Sulla concitazione del momento, il lavoratore, all’esito della fase impugnatoria a lui favorevole, aveva ritenuto che il provvedimento di reintegra, sino al definitivo recepimento del datore, accordasse un salvacondotto comportamentale, tale da consentirgli palesare sui social le proprie feroci critiche all’atteggiamento del datore, una volta appurato l’illegittimità del comportamento.
Ne seguiva un nuovo procedimento disciplinare ex art. 7 L. N° 300/1970, culminato con un nuovo licenziamento, nuovamente impugnato dal prestatore di lavoro.
Nello specifico, il dipendente aveva opposto reclamo avverso la sentenza di primo grado che aveva ritenuto legittimo il licenziamento, ed anche la Corte d’Appello adita aveva confermato la tesi del giudice di prime cure; entrambi i giudici di merito ritenevano sussistere, per le affermazioni denigratorie su Facebook, una giusta causa di licenziamento, venuto meno il rapporto fiduciario tra le parti, ed altresì appurato il superamento dei limiti relativi il corretto esercizio del diritto di critica, dato l’intento puramente diffamatorio della condotta.
Ricorre per Cassazione il lavoratore avverso la sentenza di secondo grado, al fine di lamentare l’erronea applicazione degli articoli 2119 c.c. e 2106 c.c., sul presupposto di una carenza del potere disciplinare in capo al datore, prima della ricostituzione effettiva del rapporto di lavoro, non avendo avuto il provvedimento giudiziale di reintegra effettiva attuazione.
Di contrario avviso la Suprema Corte, la quale rigetta la posizione del lavoratore, confermando la pronuncia di merito: la reintegrazione riattiva tutte le obbligazioni del rapporto di lavoro precedente, da intendersi sospese, ma non concluse, a seguito del licenziamento illegittimo. La condotta denigratoria del dipendente è risultata essere stata assunta in presenza di un rapporto di lavoro sussistente, destinata così ad uno scrutinio dal un punto di vista disciplinare. Ta tanto ne discende il pieno assoggettamento del dipendente, reintegrato ma non reinserito nel posto di lavoro, nel perimetro di controllo disciplinare dal parte del datore, pienamente soggetto anche alla più grave sanzione del licenziamento per giusta causa.
Sulla base di tali presupposti, la Corte di Legittimità ha rigettato il ricorso, confermando la legittimità della condotta dell’azienda datrice (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Ordinanza 17 Maggio 2024, N° 13764).
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