Dopo avere ribadito, ancora una volta, che la comunanza di beni o servizi, da parte di due o più condomini, importa, salvo diverso titolo, la formazione di un supercondominio (che, in quanto tale, non richiede sacramentali costituzioni), l’Alto Consesso di Legittimità riconosce come, al supercondominio si applicano le disposizioni di cui all’art. 1136 c.c., tanto per ciò che concerne l’elemento reale che quello personale. Ne consegue che, il computo delle maggioranze (in ordine a convocazione, costituzione, formazione e calcolo delle stesse), anche nelle ipotesi di supercondominio, deve farsi alla stregua dell’art. 1136 c.c., e, laddove la delibera adottata non osservi il criterio codicistico citato ovvero sia lesiva dei criteri che governano l’ambito condominiale, la legittimazione ad agire per la tutela di diritti comuni spetta al singolo condomino, pur se facente parte di distinto condominio, comunque ricadente nel supercondominio (CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE IIª CIVILE , SENTENZA 21 Febbraio 2013, N° 4340).
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato nel luglio 1992 il sig. C.P. conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Castrovillari, il Condominio (………….) scala B) esponendo: – che, con lettera racc. A.R. del 10 giugno 1992, l’amministratore del predetto Condominio gli aveva trasmesso copia della deliberazione assembleare adottata il 13 giugno 1992, mediante la quale erano stati decisi l’installazione di cancelli all’ingresso della proprietà condominiale, l’affidamento dei relativi lavori, le modalità di pagamento e la ripartizione delle spese; – che, sulla scorta dell’approvata ripartizione (computata su un importo complessivo di L. 25.000.000), esso esponente avrebbe dovuto corrispondere l’importo di L. 2.115.000, di cui £ 634.500 entro 5 giorni dalla ricezione della lettera, £ 634.500 a lavori ultimati e collaudati e la residua somma di L. 846.000 nel termine di 90 giorni dall’ultimazione stessa dei lavori; – che, tuttavia, la delibera in questione si sarebbe dovuta considerare viziata poiché alla stessa avevano partecipato condomini privi di legittimazione, in quanto proprietari di appartamenti ricompresi nel Condominio della scala A), sicché non si sarebbero potute ritenere raggiunte le prescritte maggioranze; – che, peraltro, la collocazione dei cancelli e della relativa muratura di sostegno risultava situata in area non condominiale e, comunque, in posizione tale da precludere il libero accesso alla sua esclusiva proprietà, nel piazzale retrostante l’edificio condominiale; tanto premesso, chiedeva l’annullamento dell’impugnata deliberazione con il conseguente ordine di collocare i cancelli in modo da non pregiudicare il libero accesso alla sua proprietà. Si costituiva in giudizio l’evocato Condominio, il quale, oltre ad instare per il rigetto della domanda principale, proponeva domanda riconvenzionale diretta all’ottenimento della restituzione, in favore dello stesso, del piazzale antistante il Condominio medesimo affinché potesse assolvere alla sua originaria destinazione di verde e parcheggio condominiale, oltre alla condanna al risarcimento dei danni. Con separato atto di citazione notificato il 6 luglio 1992, il C.P. impugnava la stessa delibera anche nei confronti del Condominio scala A), che, a sua volta, si costituiva in giudizio formulando le medesime difese avanzate dall’altro Condominio. Disposta la riunione delle due cause ed ordinata, in un primo momento, la sospensione dei lavori cui era riferita la delibera impugnata (la quale, però, veniva poi revocata), all’esito dell’espletata istruzione probatoria (nel corso della quale veniva anche esperita c.t.u.), il Tribunale adito, con sentenza n. 678 del 2002, accoglieva la domanda proposta dal C. , dichiarando la nullità assoluta dell’impugnata delibera condominiale, e rigettava le formulate domande riconvenzionali.
Avverso la predetta sentenza avanzava appello il sig. G.S. , quale condomino del Condominio del (omissis) e, previa integrazione del contraddittorio nei confronti dei Condomini (omissis) scala A) e scala B) (i quali, peraltro, rimanevano contumaci), la Corte di appello di Catanzaro, nella costituzione dell’appellato C.P. , con sentenza n. 364 del 2006 (depositata il 13 luglio 2006), accoglieva il gravame e, per l’effetto, in riforma dell’impugnata sentenza, rigettava la domanda di annullamento della delibera condominiale proposta nell’interesse di C.P. , compensava tra le parti le spese del giudizio di primo grado, dichiarava l’inammissibilità della domanda riconvenzionale come riproposta dall’appellante e condannava il C.P. alla rifusione delle spese del giudizio di secondo grado in favore del G. . A sostegno dell’adottata decisione, la Corte territoriale, previa reiezione dell’eccezione di nullità della sentenza di primo grado e di quella di difetto di legittimazione passiva del G.S. (che aveva, infatti, documentalmente dimostrato di essere proprietario di uno degli appartamenti siti nel Condominio (omissis) scala A), ravvisava la fondatezza del gravame sul presupposto che l’area sulla quale erano stati installati i cancelli presentava la natura (sul piano oggettivo) di cortile che afferiva ad un supercondominio in ordine al quale l’opera approvata integrava gli estremi di un’innovazione che non poteva considerarsi vietata e che, anzi, non era idonea a comportare alcun mutamento di destinazione delle aree condominiali, mirando, in contrario, a potenziare le facoltà dei condomini e a regolamentare, migliorandolo, l’uso della cosa comune impedendo a terzi estranei al condominio l’indiscriminato accesso al cortile.
Nei confronti della suddetta sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione il C.P. , articolato in nove motivi, in ordine al quale ha resistito, in questa sede, il G.S. con controricorso, contenente anche ricorso incidentale (riferito ad un unico motivo). Nessun altro intimato risulta essersi costituito nella presente fase di legittimità. Il ricorrente principale ha, altresì, formulato controricorso avverso il ricorso incidentale del G. . Il difensore del ricorrente principale ha, inoltre, depositato memoria illustrativa ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
1. In primo luogo deve essere disposta la riunione dei due ricorsi ai sensi dell’art. 335 c.p.c., poiché gli stessi sono riferiti alla medesima sentenza.
2. In via pregiudiziale, poi, deve essere respinta la richiesta (reiterata anche in sede di discussione) di cui alla prodotta “istanza di rinvio e rimessione in termini” ad opera dei difensori del controricorrente C.P. motivata dalla circostanza che l’avviso di fissazione dell’udienza non era stato recapitato presso la sede effettiva del nominato domiciliatario Avv. Andrea Caranci (che l’aveva trasferita, nelle more del giudizio, da via Adige, n. 39, di Roma – quale indicata originariamente nel controricorso – in viale Somalia, 35, di Roma), con conseguente ritenuta illegittimità della notificazione del predetto avviso presso la Cancelleria della Corte di cassazione.
Infatti, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte (e sul presupposto che, nel caso di specie, i difensori del C. non avevano comunicato alla Cancelleria alcuna modificazione del luogo di domiciliazione), nel giudizio di cassazione le comunicazioni di cui all’art. 377, secondo comma, c.p.c. vanno effettuate presso la cancelleria della Corte di Cassazione, in applicazione di quanto l’art. 366, secondo comma, dello stesso codice stabilisce per il caso di mancata elezione di domicilio, qualora il domiciliatario, indicato con l’elezione di domicilio in precedenza effettuata ai sensi del suddetto secondo comma dell’art. 366 c.p.c., si sia trasferito fuori del luogo indicato con essa, senza comunicare alla Cancelleria della stessa Corte il nuovo domicilio, potendo tale comunicazione acquisire rilevanza fino a quando le attività di notificazione o comunicazione predette presso la Cancelleria non si siano perfezionate e non potendo, invece, assumere alcun rilievo la conoscenza del nuovo indirizzo del domiciliatario che possa essere risultata acquisita “aliunde”, ancorché il luogo del trasferimento del domiciliatario (sia esso o meno un avvocato) si situi in Roma. Infatti, il suddetto secondo comma dell’art. 366 (che ha natura di disposizione generale, atta a regolare non solo la notificazione del controricorso e dell’eventuale ricorso incidentale, ma tutte le notificazioni e comunicazioni da farsi agli avvocati delle parti nel giudizio di cassazione e, quindi, anche quelle di cui all’art. 377, secondo comma, c.p.c.) impone di configurare l’elezione di domicilio come una dichiarazione indirizzata ai soggetti che a diverso titolo operano nel giudizio di cassazione (cioè alla controparte; al giudice, per quel che attiene alla rilevanza che essa ha ai fini della regolarità dello svolgimento del processo e dell’esecuzione dei relativi controlli; all’ausiliario, tenuto ad individuare il luogo in cui indirizzare le comunicazioni e notificazioni cui la Cancelleria della Corte deve provvedere), con la conseguenza che un trasferimento del luogo della domiciliazione, per acquisire rilievo come nuova elezione di domicilio, esige anch’esso – necessariamente ed in via esclusiva – una specifica dichiarazione indirizzata e comunicata alla Cancelleria della Corte di Cassazione, in difetto della quale è da ritenersi legittima la comunicazione effettuata presso la stessa Cancelleria (cfr., ad es., Cass., S.U., n. 92 del 1999, ord.; Cass. n. 7309 del 2002; Cass. n. 6508 del 2004; Cass. n. 7394 del 2008).
3. Con il primo motivo il C. ha dedotto la violazione dell’art. 342 c.p.c. (in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.), formulando al riguardo, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. (“ratione temporis” applicabile, poiché la sentenza impugnata risulta pubblicata il 13 luglio 2006), il seguente quesito di diritto: “anche in sede di legittimità deve essere rilevata l’inammissibilità del gravame privo del requisito della specificità dei motivi, ai sensi dell’art. 342 c.p.c.”.
3.1. Il motivo è inammissibile per inosservanza del prescritto requisito di cui al citato art. 366 bis c.p.c., siccome il formulato quesito è assolutamente generico, non risultando puntualmente ed autonomamente correlato alla controversia in concreto. Sul piano generale si osserva (cfr., ad es., Cass. n. 4556/2009) che l’art. 366-bis c.p.c., nel prescrivere le modalità di formulazione dei motivi del ricorso in cassazione, comporta, ai fini della declaratoria di inammissibilità del ricorso medesimo, una diversa valutazione da parte del giudice di legittimità a seconda che si sia in presenza dei motivi previsti dai numeri 1, 2, 3 e 4 dell’art. 360, comma 1, c.p.c., ovvero del motivo previsto dal numero 5 della stessa disposizione. Nel primo caso ciascuna censura deve, all’esito della sua illustrazione, tradursi in un quesito di diritto, la cui enunciazione (e formalità espressiva) va funzionalizzata, come attestato dall’art. 384 c.p.c., all’enunciazione del principio di diritto ovvero a “dieta” giurisprudenziali su questioni di diritto di particolare importanza, mentre, ove venga in rilievo il motivo di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c. (il cui oggetto riguarda il solo “iter” argomentativo della decisione impugnata), è richiesta una illustrazione che, pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso – in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione.
Ciò posto, alla stregua della uniforme interpretazione di questa Corte (secondo la quale, inoltre, ai fini dell’art. 366 bis c.p.c., il quesito di diritto non può essere implicitamente desunto dall’esposizione del motivo di ricorso, né può consistere o essere ricavato dalla semplice formulazione del principio di diritto che la parte ritiene corretto applicare alla fattispecie, poiché una simile interpretazione si sarebbe risolta nell’abrogazione tacita della suddetta norma codicistica), deve escludersi che il ricorrente – con il primo motivo – si sia attenuto alla rigorosa previsione scaturente dal citato art. 366 bis c.p.c., difettando del necessario connotato della specificità e risolvendosi in un interrogativo del tutto generico e sganciato dalla concreta fattispecie.
4. Con il secondo motivo il predetto ricorrente ha prospettato la violazione degli artt. 99 e 112 c.p.c. in ordine all’art. 360 c.p.c. (senza indicare alcun riferimento ad uno dei vizi richiamati in quest’ultima norma), formulando il quesito di diritto nei seguenti termini: “è viziata da ultrapetizione la decisione che ecceda i limiti della domanda giudiziale proposta”.
4.1. Anche questo motivo è, all’evidenza, inammissibile per assoluta genericità del quesito formulato, risolvendosi in un interrogativo di carattere tautologico privo di specificità in correlazione con la vicenda processuale in questione.
5. Con il terzo motivo il C. ha denunciato la violazione degli artt. 100 c.p.c. e 1131 e 1117 c.c., deducendo il seguente quesito di diritto: “il singolo condomino è privo di legittimazione ad impugnare una sentenza che riguardi un condominio diverso da quello di appartenenza”. Ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. è stato chiesto a questa Corte se “il singolo condomino è privo di legittimazione ad impugnare una sentenza che riguardi un condominio diverso da quello di appartenenza”.
5.1. Il motivo, da ritenersi ammissibile in relazione all’osservanza del requisito di cui al richiamato art. 366 bis c.p.c., è infondato.
Con tale doglianza il ricorrente ha inteso sostenere che l’appellante G. era proprietario di una unità immobiliare del condominio della scala A), ragion per cui avrebbe potuto ritenersi legittimato all’appello esclusivamente con riferimento all’ambito del condominio di era partecipe, con la sua conseguente mancanza di legittimazione in ordine all’altro condominio, relativo alla scala B).
Occorre, innanzitutto, evidenziare (cfr., ad es., Cass. n. 7286 del 1996 e Cass. n. 2305 del 2008) che i singoli edifici costituiti in altrettanti condomini vengono a formare un “supercondominio” quando talune cose, impianti e servizi comuni (viale d’ingresso, impianto centrale per il riscaldamento, parcheggio, locali per la portineria o per l’alloggio del portiere, ecc.) contestualmente sono legati, attraverso la relazione di accessorio a principale, con più edifici, appartengono ai proprietari delle unità immobiliari comprese nei diversi fabbricati e sono regolati, se il titolo non dispone altrimenti, in virtù di interpretazione estensiva o analogica, dalle norme dettate per il condominio negli edifici. Ne consegue che le disposizioni dettate dall’art. 1136 c.c. in tema di convocazione, costituzione, formazione e calcolo delle maggioranze si applicano con riguardo agli elementi reale e personale del supercondominio, rispettivamente configurati da tutte le unità abitative comprese nel complesso e da tutti i proprietari.
Orbene, con riferimento al caso di specie, la Corte di appello ha idoneamente accertato che il G.S. aveva dimostrato, attraverso la produzione del proprio titolo di acquisto, di essere proprietario di uno degli appartamenti ubicati nel condominio (OMISSIS) scala A), donde la sua legittimazione ad impugnare la sentenza che riguardava il costituito supercondominio, non trascurandosi la decisiva circostanza che la delibera condominiale oggetto di impugnazione da parte del C. aveva ad oggetto l’apposizione di due cancelli su aree antistanti e comuni ad entrambi gli edifici del complesso condominiale costituente il supercondominio, ragion per cui l’impugnativa del G. aveva riguardato un oggetto riferibile a parti ed interessi comuni allo stesso supercondominio inteso nella sua unitarietà (tanto è vero che il contraddittorio era stato integrato anche nei confronti del condominio scala B). Deve, perciò, affermarsi – trovando applicazione in proposito i principi generali in materia condominiale (cfr., ad es., Cass. n. 8842 del 2001; Cass. n. 12588 del 2002; Cass. n. 9206 del 2005 e Cass. n. 14765 del 2012) che, anche nell’ipotesi di “supercondominio”, la legittimazione d agire perla tutela di diritti comuni spetta a ciascun singolo condomino (facente parte dei distinti condominiiche compongono complessivamente il supercondominio).
6. Con il quarto motivo risulta dedotta la violazione degli artt. 112 c.p.c., nonché degli artt. 1117 e 1136 c.c., con la formulazione del seguente quesito di diritto: “il supercondominio si costituisce con atto formale che regoli i rapporti tra i condomini che lo compongono e la ripartizione degli oneri tra i singoli partecipanti”.
6.1. Anche questo motivo (ancorché ammissibile) è privo di pregio giuridico. Secondo la prospettazione del ricorrente, il supercondominio, come accorpamento di due o più singoli condomini per la gestione di beni comuni (ferma l’autonomia amministrativa per i beni propri di ciascun distinto organismo), deve essere costituito attraverso le deliberazioni degli enti che concorrono a formarlo e, naturalmente, deve essere anche dotato di un proprio regolamento, che determini la misura in cui ciascun ente fondante partecipa alla gestione dei beni comuni, assumendo i relativi oneri e ripartendoli al suo interno. Sulla scorta di tale presupposto, la difesa del C. ha inteso evidenziare che, nella fattispecie, né il condominio scala A), né quello riferito alla scala B), avevano affermato e provato l’avvenuta costituzione tra i due enti del supercondominio (che, invece, la sentenza aveva dato per costituito), non risultando prodotto alcun documento in virtù del quale erano stati regolati i rapporti reciproci e la distribuzione degli oneri tra i proprietari delle diverse unità immobiliari.
La riportata ricostruzione non è corretta sul piano giuridico.
Infatti, secondo la giurisprudenza praticamente consolidata di questa Corte (cfr, ad es., Cass. n. 2305 del 2008; Cass. n. 13883 del 2010; Cass. n. 17332 del 2011 e, da ultimo, Cass. n. 19939 del 2012), ai fini della costituzione di un supercondominio, non è necessaria né la manifestazione di volontà dell’originario costruttore né quella di tutti i proprietari delle unità immobiliari di ciascun condominio, essendo sufficiente che i singoli edifici, abbiano, materialmente, in comune alcuni impianti o servizi, ricompresi nell’ambito di applicazione dell’art. 1117 cod. civ., (quali, ad esempio, il viale d’ingresso, l’impianto centrale per il riscaldamento, i locali per la portineria, l’alloggio del portiere), in quanto collegati da un vincolo di accessorietà necessaria a ciascuno degli stabili, spettando, di conseguenza, a ciascuno dei condomini dei singoli fabbricati la titolarità “pro quota” su tali parti comuni e l’obbligo di corrispondere gli oneri condominiali relativi alla loro manutenzione. In altri termini, al pari del condominio negli edifici, regolato dagli artt. 1117 e segg. c.c., anche il c.d. supercondominio, viene in essere “ipso iure et facto”, se il titolo non dispone altrimenti, senza bisogno d’apposite manifestazioni di volontà o altre esternazioni e tanto meno d’approvazioni assembleari, sol che singoli edifici, costituiti in altrettanti condomini abbiano in comune talune cose, impianti e servizi legati, attraverso la relazione di accessorio e principale, con gli edifici medesimi e per ciò appartenenti, “pro quota”, ai proprietari delle singole unità immobiliari comprese nei diversi fabbricati. La Corte di appello catanzarese, nella sentenza impugnata (v. pagg. 15-17), si è attenuta a tali principi e, quindi, non merita censura sotto il profilo denunciato con il motivo in questione.
7. Con il quinto motivo il C. ha prospettato la violazione degli artt. 1117 e 1136 c.c., indicando il seguente quesito di diritto: “nel caso di riunione congiunta di più condominii non costituiti in supercondominio, per l’adozione di una decisione è richiesta la maggioranza dei partecipanti a ciascun condominio, oppure quella calcolata sulla somma dei millesimi di ciascun condominio, sempre che la questione sia stata prospettata dalle parti in causa”.
7.1. Anche questa doglianza è priva di fondamento e deve essere, perciò, respinta. La Corte territoriale, anche sulla scorta dei principi affermati dalla giurisprudenza di questa Corte e richiamati con riferimento al precedente motivo, ha accertato che, al momento dell’adozione della delibera assembleare oggetto di impugnazione, risultavano costituiti due condominii (relativi all’edificio della scala A) e all’edificio della scala B), ai quali si affiancava la costituzione di un supercondominio, poiché era pacifico che esistevano parti comuni ad entrambi i fabbricati tra cui si inserivano anche le aree pertinenziali oggetto della controversia. Pertanto, nel caso in esame e per quanto precedentemente spiegato, il presupposto al quale risulta correlato il motivo in questione – ovvero che non risultasse costituito un supercondominio – è erroneo ed, inoltre, il ricorrente non ha, comunque, idoneamente contestato la circostanza che, nell’ambito dei singoli condominii, non fossero state raggiunte le maggioranze necessarie per l’adozione della deliberazione oggetto di impugnativa.
Chiarito ciò, la Corte di appello di Catanzaro ha anche evidenziato che, per la legittimità della delibera in questione occorreva la partecipazione all’assemblea dei proprietari di entrambi i condominii, la cui convocazione in seduta comune non aveva costituito nemmeno oggetto di espressa censura, evidenziandosi, altresì, quanto al raggiungimento della maggioranza, che erano state allegate agli atti le tabelle millesimali (anch’esse non oggetto di specifica contestazione in ordine alla regolarità della loro formazione e alla rispondenza alle proprietà che erano rappresentate) relative all’intero supercondominio; sulla scorta di ciò, la stessa Corte di merito ha accertato che la delibera in oggetto, approvata in seconda convocazione, recava il valore delle quote dei partecipanti all’assemblea, ammontante a 566,524 millesimi, superiore alla metà del valore dell’intero supercondominio, onde era risultata rispettata la maggioranza prescritta dall’art. 1136, commi secondo e terzo, c.c.. In tal senso, quindi, la Corte territoriale si è conformata al principio ribadito da questa Corte (v. Cass. n. 7286 del 1996, cit., e Cass. n. 15476 del 2001) in base al quale all’assemblea del “supercondominio” devono partecipare tutti i proprietari delle unità immobiliari ubicate nei diversi edifici, con la conseguenza che le disposizioni dell’art. 1136 c.c., in tema di formazione e di calcolo delle maggioranze, si applicano considerando gli elementi reale e personale dello stesso “supercondominio”, rispettivamente configurati da tutte le unità comprese nel complesso e da tutti i proprietari.
8. Con il sesto motivo il ricorrente principale ha denunciato la violazione degli artt. 194 e 195 c.p.c., nonché dell’art. 1117 c.c., esponendo il seguente quesito di diritto: “deve ritenersi viziata la sentenza che disattende le risultanze di una consulenza tecnica senza adeguata e sufficiente motivazione, che renda chiaramente e logicamente conto del diverso criterio adottato perla valutazione dei fatti e delle risultanze accertate”.
8.1. Questo motivo è da ritenersi inammissibile per violazione dell’art. 366 bis c.p.c., poiché il formulato quesito, sulla scorta dei principi precedentemente illustrati, è del tutto generico; peraltro, con detta doglianza viene, in effetti, dedotto un vizio motivazionale del percorso logico seguito dalla Corte territoriale con riferimento al mancato superamento, da parte dello stesso C. , della presunzione di appartenenza alla collettività condominiale delle aree oggetto della delibera impugnata, in rapporto alle complessive risultanze emergenti dal contenuto della relazione del c.t.u. e dagli allegati documenti. Ma anche sotto questo profilo il ricorrente non ha assolto all’onere incombentegli ai sensi del citato art. 366 bis c.p.c., non essendo stata idoneamente riportata alcuna sintesi dello stesso vizio prospettato e mancando del tutto la chiara indicazione, in apposito quadro riepilogativo, del fatto controverso in relazione al quale si è assunto che la motivazione fosse insufficiente, così come difetta anche la prospettazione delle ragioni, in termini adeguatamente specifici, per le quali la supposta insufficienza motivazionale si sarebbe dovuta ritenere inidonea a supportare la decisione.
In ogni caso, la Corte catanzarese ha compiuto una valutazione di merito adeguatamente e logicamente motivata in merito alla ravvisata inattendibilità sul punto della c.t.u., come tale incensurabile in questa sede. In particolare, la Corte di secondo grado ha idoneamente argomentato in ordine all’esclusione della univocità dell’interpretazione degli atti come supposta dal c.t.u. in ordine all’individuazione oggettiva e della natura della striscia dello spazio esterno posta ai due lati del fabbricato delimitata da un muretto, considerando la condominialità della stessa sulla base di una pluralità di elementi probatori sintomatici riconducibili sia alle previsioni della destinazione delle aree circostanti il fabbricato nella concessione edilizia, sia al comportamento successivo adottato dallo stesso C. , dai quali, perciò, era scaturita la conseguenza che non si sarebbe potuto ritenere con certezza – sulla scorta degli atti prodotti – accertato il fatto che il C. avesse effettivamente riservato per sé la proprietà dell’area di accesso al fabbricato ove insistevano i cancelli apposti, donde non poteva considerarsi idoneamente confutata la presunzione di comproprietà e, quindi, di condominialità di tali spazi.
9. Con il settimo motivo il C. ha dedotto la violazione degli artt. 194 e 195 c.p.c., oltre che degli artt. 832, 840 e 1117 c.c., formulando il quesito di diritto nel seguente tenore: “è priva di motivazione la sentenza che omette di considerare dati certi, documentati dai titoli di proprietà e rilevati dalla c.t.u.”.
9.1. Anche questo motivo è da qualificare inammissibile per le medesime ragioni riportate in ordine al motivo appena esaminato, che, perciò, devono qui intendersi integralmente richiamate.
10. Con l’ottavo motivo il C. ha dedotto la violazione degli artt. 832, 840 e 1117 c.c., prospettando il seguente quesito di diritto: “in assenza di qualsiasi diritto d’uso ed in contrasto con i titoli di trasferimento, è ingiustificata l’affermazione di presunzione di comproprietà di un’area, posta a servizio di locali di uso esclusivo”.
10.1. Anche questa doglianza si prospetta inammissibile perché non risulta assistita da un quesito formulato in modo specifico e rapportato, con precisione ed univocità, alla controversia dedotta in giudizio. Peraltro, con essa, il ricorrente ha inteso dedurre, in effetti, un vizio motivazionale la cui illustrazione non risponde ai parametri di ammissibilità prescritti dal più volte citato art. 366 bis c.p.c., da interpretarsi nei sensi già precedentemente individuati, senza, oltretutto, obliterare il dato che la sentenza impugnata- per quanto già riferito in relazione al sesto motivo – appare sufficientemente motivata in ordine alla circostanza del mancato superamento della presunzione di comproprietà delle aree controverse. E, del resto, la giurisprudenza di questa Corte (cfr., ad es., Cass. n. 5633 del 2002 e Cass. n. 11195 del 2010) è concorde nel ritenere che la presunzione legale di condominialità stabilita per i beni elencati nell’art. 1117 c.c., la cui elencazione non è tassativa, deriva sia dall’attitudine oggettiva del bene al godimento comune sia dalla concreta destinazione di esso al servizio comune, con la conseguenza che, per vincere tale presunzione, il soggetto che ne rivendichi la proprietà esclusiva ha l’onere di fornire la prova di tale diritto, precisandosi, al riguardo, che è necessario un titolo d’acquisto dal quale si desumano elementi tali da escludere in maniera inequivocabile la comunione del bene, mentre non sono determinanti le risultanze del regolamento di condominio, né l’inclusione del bene nelle tabelle millesimali come proprietà esclusiva di un singolo condomino.
11. Con il nono ed ultimo motivo il C. ha censurato la sentenza impugnata per l’assunta violazione degli artt. 1120 e 1136, comma 5, c.c., formulando il seguente quesito di diritto: “l’installazione ex novo di cancelli costituisce innovazione che deve essere deliberata con la maggioranza qualificata prevista dall’art. 1136 c.c.?”.
11.1. Questo motivo è da ritenere infondato e deve, quindi, essere rigettato. Secondo la prospettazione del ricorrente principale la Corte di appello di Catanzaro avrebbe errato nell’affermare che l’installazione di cancelli (che, invece, comporta una modificazione dell’accesso alle aree di uso condominiale) non costituisce innovazione, sottoposta al regime di approvazione previsto dall’art. 1136, comma quinto, c.c., ma soltanto la realizzazione di opere non comportanti alcun mutamento di destinazione delle aree condominiali, mirando anzi a potenziare le facoltà dei condomini e a regolamentare, migliorandolo, l’uso della cosa comune. Tale prospettazione non è accoglibile. Ad avviso della giurisprudenza di questa Corte (cfr., ad es., Cass. n. 15460 del 2002; Cass. n. 12654 del 2006 e, da ultimo, Cass. n. 18052 del 2012), in tema di condominio, per innovazioni delle cose comuni devono intendersi non tutte le modificazioni (qualunque “opus novum”), ma solamente quelle modifiche che, determinando l’alterazione dell’entità materiale o il mutamento della destinazione originaria, comportano che le parti comuni, in seguito all’attività o alle opere eseguite, presentino una diversa consistenza materiale ovvero vengano ad essere utilizzate per fini diversi da quelli precedenti. In altre parole, nell’ambito della materia del condominio negli edifici, per innovazione in senso tecnico -giuridico, vietata ai sensi dell’art. 1120 c.c., deve intendersi non qualsiasi mutamento o modificazione della cosa comune, ma solamente quella modificazione materiale che ne alteri l’entità sostanziale o ne muti la destinazione originaria, mentre le modificazioni che mirino a potenziare o a rendere più comodo il godimento della cosa comune e ne lascino immutate la consistenza e la destinazione, in modo da non turbare i concorrenti interessi dei condomini, non possono definirsi innovazioni nel senso suddetto. A tale principio si è conformata la Corte di secondo grado che, con valutazione di merito adeguatamente motivata e fondata su univoci accertamenti di fatto, ha esattamente ritenuto che i lavori deliberati concernenti l’apposizione, all’ingresso dell’area condominiale, di due cancelli per il transito pedonale e due cancelli per il passaggio veicolare, non potevano ricondursi al concetto di innovazioni come qualificate dall’art. 1120 c.c., non comportando alcun mutamento di destinazione delle zone condominiali ed essendo, anzi, dirette a disciplinare, in senso migliorativo, l’uso della cosa comune impedendo a terzi estranei l’indiscriminato accesso al condominio, soprattutto considerando che, nel caso di specie, al piano terra del fabbricato esisteva un istituto scolastico provvisto di autonomo cortile e, quindi, un luogo aperto al pubblico con conseguente possibilità di un transito continuo di persone estranee alle collettività condominiale. Pertanto deve, in questa sede, essere riconfermato il principio secondo cui, in tema di condominio di edifici, la delibera assembleare, con la quale sia stata disposta la chiusura di un’area di accesso al fabbricato condominiale con uno o più cancelli per disciplinare il transito pedonale e veicolare anche in funzione di impedire l’indiscriminato accesso di terzi estranei a tale area, rientra legittimamente nei poteri dell’assemblea dei condomini, attinendo all’uso della cosa comune ed alla sua regolamentazione, senza sopprimere o limitare le facoltà di godimento dei condomini, non incidendo sull’essenza del bene comune né alterandone la funzione o la destinazione (cfr., per idonei riferimenti, Cass. n. 9999 del 1992 e Cass. n. 875 del 1999). Pertanto, non è richiesta (come ravvisato esattamente, nella fattispecie, dalla Corte territoriale) per la legittimità di una delibera assembleare condominiale avente detto oggetto, l’adozione con la maggioranza qualificata dei due terzi del valore dell’edificio, non concernendo tale delibera una “innovazione” secondo il significato attribuito a tale espressione dal codice civile, ma riguardando solo la regolamentazione dell’uso ordinario della cosa comune consistente nel consentire a terzi estranei al condominio l’indiscriminato accesso alle aree condominiali delimitate dai cancelli.
12. Con l’unico motivo di ricorso incidentale il G. ha dedotto la violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato (art. 360 n. 4 c.p.c. e, in via gradata, n. 3 c.p.c.), con riferimento agli artt. 99 e 112 c.p.c., nonché la violazione e falsa applicazione (ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c.) in relazione all’art. 345 c.p.c, oltre al vizio di omessa o, in linea gradata, insufficiente motivazione (art. 360 n. 5 c.p.c). Al riguardo risulta formulato il seguente quesito di diritto in virtù dell’art. 366 bis c.p.c. (mentre mancano l’indicazione del fatto controverso e l’idonea sintesi del vizio motivazionale): “integra la violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato la statuizione del giudice di merito che dichiara inammissibile una domanda proposta in appello perché da lui erroneamente ritenuta non conforme a quella riconvenzionale già articolata in prime cure”, nonché “deve ritenersi viziata la sentenza di merito che, limitandosi alla lettura della prospettazione meramente letterale della pretesa della parte, ritenga come nuova la domanda che tale non sarebbe se letta alla stregua dell’effettivo contenuto sostanziale della domanda stessa”.
12. Il motivo è inammissibile quanto alla denunciata di legge dedotta siccome il quesito di diritto dedotto ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. è del tutto generico, non emergendo dallo stesso nemmeno quale fosse il contenuto della domanda riconvenzionale e non risultando riportata la correlazione tra la sentenza di primo e quella di secondo grado al fine del rilievo della possibile violazione del principio stabilito dall’art. 112 c.p.c.. Con riferimento, invece, al complessivo vizio motivazionale dedotto esso deve ritenersi allo stesso modo inammissibile, non emergendo alcuna relativa sintesi di esso, mancando la chiara evidenziazione, in apposito quadro riepilogativo, del fatto controverso in relazione al quale si assume che la motivazione era stata carente e anche la prospettazione delle ragioni, in termini adeguatamente specifici, per le quali la supposta insufficienza motivazionale si sarebbe dovuta considerare inidonea a supportare la decisione.
13. In definitiva, alla stregua delle complessive ragioni esposte, il ricorso principale deve essere rigettato, mentre quello incidentale va dichiarato inammissibile. Stante la prevalente e complessiva soccombenza del ricorrente principale (valutata congiuntamente al principio di causalità), lo stesso deve essere condannato al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del presente giudizio, che si liquidano nei sensi di cui in dispositivo sulla scorta dei nuovi parametri previsti per il giudizio di legittimità dal D.M. Giustizia 20 luglio 2012, n. 140 (applicabile nel caso di specie in virtù dell’art. 41 dello stesso D.M.: cfr. Cass., S.U., n. 17405 del 2012). Non deve essere adottata, invece, alcuna statuizione sulla disciplina delle spese nei confronti delle altre parti intimate, che non hanno svolto attività difensiva in questa sede.
P.Q.M.
La Corte, riuniti i ricorsi, rigetta il ricorso principale e dichiara l’inammissibilità del ricorso incidentale. Condanna il ricorrente principale al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi Euro 2.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori nella misura e sulle voci come per legge.
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Studio Legale Avvocato Francesco Noto – Cosenza